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I ragazzi (anche) a lavorare ?

Si butta lì una dichiarazione, per tre giorni tutti ne discutono e commentano fino….alla prossima battuta giornalistica.

25/03/2015
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ScuolaOggi

La dichiarazione del Ministro Poletti sulle vacanze degli studenti e sulla opportunità che gli stessi abbiano una qualche esperienza lavorativa estiva, rientra nel novero della politica dei giorni nostri. Si butta lì una dichiarazione, per tre giorni tutti ne discutono e commentano fino….alla prossima battuta giornalistica. Nel merito, intanto, della questione sollevata, non succede nulla; l’attenzione di tutti sarà già  orientata sull’ultima battuta del momento.

Non è una bella politica quella che ci tocca vedere così spesso. Con noncuranza impressionante, si buttano via anni di dibattito, di ricerche, di proposte che pure non sono mancate. Prendiamo la questione dei “tre mesi” di interruzione delle attività didattiche. La questione è arcinota da tempo.

L’Italia non ha meno giorni di lezione degli altri Paesi europei ( anzi) ma ciò che è decisamente discutibile , dal punto di vista pedagogico, è la lunghezza della pausa estiva. In Paesi a noi vicini ( Francia e Germania, solo per fare un esempio) la pausa estiva dura un mese ma nel corso dell’anno sono frequenti le pause del calendario scolastico . Siccome da noi queste pause non ci sono, salvo Natale e Pasqua, ci pensano gli studenti a deciderle nelle forme che conosciamo benissimo e che le istituzioni stesse tollerano oramai come un rito stagionale. Lo ha ben colto il sottosegretario Faraone ( con l’immediata rimozione della sostanza di quella dichiarazione da parte di troppi osservatori) ma se non vi saranno modifiche, questo stato di cose proseguirà.

La questione, in sé così semplice e chiara, è maledettamente complessa sul piano sociale. Pochi giorni fa ero in Francia, nella cittadina di Limoges,  proprio nel pieno di una pausa scolastica  bisettimanale. Mi ha colpito l’organizzazione sociale che ho potuto vedere. Il Comune, per tutto il periodo ha organizzato , in appositi spazi chiusi ( anche grandi tendoni riscaldati),parchi giochi per i piccoli a ingresso gratuito per i bambini. Nonni e genitori potevano dunque organizzare le attività per i piccoli, senza essere costretti a ferie o assenze dal lavoro, o a tenere i bambini chiusi in casa. Insomma il calendario scolastico non può prescindere dalla organizzazione sociale complessiva, pena creare conseguenze spiacevoli e dannose. Ecco perché da noi non succede nulla; perché nessuno mette mano a un progetto complessivo che tenga insieme i tempi di vita e di studio dei ragazzi, le condizioni di lavoro e di non lavoro degli adulti, gli spazi per una socialità da vivere. E’ solo a queste condizioni che puoi immaginare un calendario con giuste pause e magari distribuirle nell’arco dell’anno anche tenendo conto delle condizioni climatiche locali.  Pensare che sia sufficiente solo una delibera regionale o , secondo altre amene letture, solo una decisione della singola scuola ( !!!), è pura follia. Ci vuole un “buon governo” del Paese.

Secondo versante: gli edifici scolastici. In un Paese che voglia crescere in sapere e cultura, il fatto che per tre mesi quasi cinquantamila edifici pubblici restino chiusi, è uno scandalo. Potrebbero costituire dei veri centri di vita sociale dove giovani ed adulti ( quando si tornerà a parlare della domanda di vita culturale di tanti adulti?) potrebbero incontrarsi per le attività più diverse: corsi di musica, teatro,lingue, laboratori artigiani e magari, se richiesto, corsi di approfondimento e recupero.

Credo che una parte dei docenti, con il giusto compenso, non sarebbe indisponibile a dedicare qualche giorno di attività lavorativa in tal  senso. Ma si potrebbero anche attivare cooperative sociali e gruppi di volontariato di cui potrebbero essere protagonisti gli stessi studenti. Anche in questo caso, è solo  da un legame forte tra scuola e territorio che possono nascere progetti ben definiti, organizzati e trasparenti nel loro obiettivo sociale. Sempre che le politiche, nazionali e locali, vogliano investire in tal senso.

Terzo versante: il lavoro dei ragazzi. Non credo, salvo rare eccezioni,  che un mese di stage in una piccola azienda, possa rappresentare una forte motivazione per un giovane; a meno che non sia una appendice di un progetto già avviato in corso d’anno.

Tuttavia non capisco perché non si vogliano prendere in considerazione i “lavori di cittadinanza”. Le nostre città, grandi e piccole, hanno immensi problemi di decoro e vivibilità: strade sporche, verde abbandonato, monumenti e palazzi spesso deturpati da scritte, aiuole inguardabili. Può la scuola diventare il luogo in cui, d’intesa e sotto la vigilanza dell’ente locale, si definiscono e realizzano progetti per migliorare la vivibilità del territorio? Quale immenso valore civico e umano, personale, avrebbe per un giovane una esperienza lavorativa in uno di questi ambiti, con la garanzia di una protezione assicurativa e di un piccolo compenso? Praticare la cittadinanza, costruire l’identità di appartenenza , conta molto di più di un dibattito sul tema.

Quarto ed ultimo versante: il calendario scolastico degli insegnanti; tema rimosso dai più per il timore delle reazioni. Io credo invece che in un serio  contesto di riforma, anche quella discussione andrebbe fatta. Basta affrontarla nel modo giusto e con lo strumento appropriato.

Lo strumento si chiama contratto. Il Ministro del Lavoro , dovrebbe saperlo.

Qualche dichiarazione in meno e qualche proposta concreta in più, sarebbe davvero un bel segnale.

Dario Missaglia


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