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I numeri programmati e il lento strangolamento dell’università italiana

Da anni il Ministero agisce con sapiente dosaggio sul rubinetto dei requisiti di docenza per regolare il numero dei corsi di studio attivabili. Ora, la rideterminazione della numerosità degli studenti dei corsi nelle diverse aree diviene uno strumento ancora più raffinato per mirati e selettivi interventi sull’offerta formativa.

13/06/2017
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ROARS

Andrea Stella

La decisione dell’università Statale di Milano di estendere l’accesso programmato a tutti i corsi di area umanistica ha destato non poco scalpore, ma se si ignora la realtà con la quale le università devono fare i conti, si rischia di ridurre le riflessioni a un puro esercizio intellettuale. Il recente D.M. 987/2016 ha riconfermato che, se il rapporto docenti/studenti non è rispettato, il corso di studio deve essere chiuso. Lo stesso decreto ha ridotto da 300 a 250 la numerosità massima di studenti per i corsi di laurea triennale di area umanistico-sociale. Due le alternative: aumentare il numero di docenti o limitare il numero di studenti. In molti casi la prima alternativa neppure esiste per mancanza di docenti dovuta alle riduzioni del turn-over dal 2008 a oggi. Se l’obiettivo fosse il miglioramento generalizzato dello standard formativo non si comprenderebbe perché la numerosità massima degli studenti dei corsi di laurea in ingegneria sia stata invece incrementata da 150 a 180, proprio in un’area che, per tipo di formazione e necessità di attività di laboratorio, richiederebbe invece una riduzione. Da anni il Ministero agisce con sapiente dosaggio sul rubinetto dei requisiti di docenza per regolare il numero dei corsi di studio attivabili. Ora, la rideterminazione della numerosità degli studenti dei corsi nelle diverse aree diviene uno strumento ancora più raffinato per mirati e selettivi interventi sull’offerta formativa. Poco  importa se l’Italia è e continuerà ad essere il paese europeo con il minor numero di laureati nella fascia di età tra i 30 e i 34 anni.

La decisione del Senato accademico dell’università Statale di Milano di estendere l’accesso programmato a tutti i corsi di area umanistica ha destato non poco scalpore e ha suscitato forti proteste degli studenti. Sul tema ha espresso la propria opinione anche Ferdinando Camon, con un intervento comparso su l’Avvenire del 19 maggio e ripubblicato poi su il Bo, nel quale manifesta la propria totale contrarietà all’introduzione del “numero chiuso” per l’accesso ai corsi di studio di area umanistica.

Si possono condividere o meno le motivazioni espresse e le argomentazioni sviluppate, ma se si ignora la realtà con la quale le università devono fare i conti, si rischia di ridurre le riflessioni a un puro esercizio intellettuale, confinato entro il perimetro di un utopistico mondo ideale. Qualche approfondimento e qualche allargamento dell’orizzonte si rende perciò necessario.

Innanzitutto bisogna ricordare che la programmazione degli accessi ai corsi universitari è regolamentata dalla legge 2 agosto 1999, n. 264, concepita a tutela degli studenti per garantire loro standard formativi di elevato livello; essa stabilisce infatti che agli atenei possano limitare gli accessi esclusivamente sulla base dell’offerta formativa potenziale, determinata in base alla disponibilità di posti nelle aule, di attrezzature e laboratori scientifici per la didattica, di personale docente, di personale tecnico, di servizi di assistenza e tutorato, ecc…

In tempi recenti l’introduzione di corsi ad accesso programmato da parte delle università (spesso impropriamente definiti “a numero chiuso”) sta divenendo una scelta quasi obbligata per gli atenei, costretti a fronteggiare una realtà emergenziale che deriva da scelte politiche, obblighi normativi e vincoli al reclutamento che impongono al sistema universitario un ridimensionamento forzato.

Il recente decreto ministeriale 12 dicembre 2016, n. 987 ha riconfermato che i corsi di studio devano disporre di tre docenti universitari per ogni anno di corso, purché non sia superata una determinata numerosità massima di studenti, oltre la quale è richiesto un incremento del numero di docenti; se il rapporto docenti/studenti non è rispettato il corso di studio non può essere accreditato dall’ANVUR e, se non rientra nei limiti previsti, deve essere chiuso. Ma lo stesso decreto ha anche ridotto la numerosità massima di studenti per i corsi di laurea triennale di area umanistico-sociale, portandola da 300 a 250; come dire che se fino ad oggi per un corso di 300 studenti erano sufficienti nove docenti, d’ora in poi ne servono undici.

Tutto questo ha messo in crisi molti atenei, obbligati a scegliere tra due alternative: aumentare il numero di docenti o limitare il numero di studenti, introducendo il numero programmato. In molti casi la prima alternativa neppure esiste, per mancanza di docenti; infatti dal 2008 ad oggi i docenti di ruolo nelle università italiane si sono ridotti complessivamente di quasi 14.000 unità, diminuzione solo in parte compensata dai nuovi 5.000 ricercatori a tempo determinato, con un saldo negativo complessivo di 9.000 unità; e si noti che non è una diminuzione di poco conto perché, tanto per rendere l’idea, è come se fossero scomparsi tutti i docenti delle tre più grandi università italiane: Roma “La Sapienza”, Bologna e Napoli “Federico II”.

Qualcuno ha visto l’aumento del rapporto tra docenti e studenti nei corsi di area umanistica come una buona notizia, perché andrebbe nella direzione di una migliore qualità della didattica; ma se davvero l’obiettivo fosse il miglioramento generalizzato dello standard formativo non si comprenderebbe per quale ragione la numerosità massima degli studenti dei corsi di laurea in ingegneria sia stata incrementata da 150 a 180, proprio in un’area che, per tipo di formazione e necessità di attività di laboratorio, richiederebbe invece una riduzione.

Come si spiega allora tutto questo? Da anni il Ministero agisce con sapiente dosaggio sul rubinetto dei requisiti di docenza per regolare il numero dei corsi di studio attivabili, e ora la rideterminazione della numerosità degli studenti dei corsi nelle diverse aree diviene uno strumento ancora più raffinato, perché impone analoghi ma più mirati e selettivi interventi sull’offerta formativa.

Allo stato attuale non è facile prevedere come gli atenei si comporteranno; potranno infatti essere indotti a far tacere corsi di studio o limitarne i posti disponibili, ricorrendo al numero programmato; oppure potranno riconsiderare la destinazione delle poche risorse disponibili per il reclutamento, assegnandole ad aree divenute critiche in base alle nuove numerosità, ma sottraendole così ad altre aree. In ogni caso l’intervento normativo avrà un significativo impatto sulle scelte strategiche degli atenei e ne condizionerà l’autonomia. Quali che siano le scelte delle università si va verso un ulteriore depauperamento dell’offerta formativa e poco sembra importare alla politica se l’Italia è e continuerà ad essere il paese europeo con il minor numero di laureati nella fascia di età tra i 30 e i 34 anni.


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