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I giovani, il futuro e il ruolo essenziale della scuola

di LUIGI DI CUONZO

20/10/2016
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La Gazzetta del Mezzogiorno

No, non mi accoderò alla miriade dei laudatores temporis acti, professori, maestri, educatori, maitre à penser, pilastri di istituzioni religiose, laiche o profane che siano, disponibili a blandire o pronti a denigrare masse e singoli alunni e studenti che, ad ogni inizio di anno scolastico, migrano nelle nostre piazze, nelle strade, nelle multi sale e teatri, a contestare il pachiderma scuola, riciclatosi in accattivanti vesti di "buona scuola" e in riattamento di vecchi arnesi didattici che si vendono come nuovi progetti di conoscenze e di competenze. Né, tanto meno, mi entusiasmano, i tanti figli di papà la generazione non è assolutamente scomparsa e non sembra proprio in declino che per autofinanziare, dicono, le iniziative di protesta, si adoperano a produrre, sotto direzione di mamme trepidanti e papà assenti, torte,tortine e... leccornie, da vendere a passanti curiosi e immedesimati. Non mi entusiasmano. Non mi rigettano in tempi passati, non mi suscitano raffronti di esperienze, di motivazioni, di progetti, che per loro stessa natura e per la diversa temporalità di attuazione, non sono raffrontatili. Non intaccano, però, affatto il rispetto che, comunque, si deve all'altro che hai di fronte. Soprattutto se non vuoi rinnegare le scelte fondamentali della tua vita privata e professionale. Specie se hai impegnato i tuoi migliori anni in ambiti sociali di formazione, schierandoti costantemente contro la retorica educativa di quanti dividono il mondo in uomini del presente, del passato e del futuro. E si impossessano di modelli di crescita dei singoli, attribuendosi l'autorevole funzione di costruire adulti, non purchessia nel rispetto del principio della diversità, dell'alterità, ma calibrati sulle ragioni di una perfetta adesione alla loro personalità di educatore. Se proprio una riflessione sulle rivendicazioni, sulle lotte, sugli scontri ideologici del nostro passato possa essere sollecitata dagli studenti di oggi è, non una nostalgia di nuove categorie istituzionali, quali la fantasia, la creatività al potere, quanto piuttosto 1' aver lasciato il mondo nuovo che si pensava di aver costruito il potere a servizio della base e non viceversa senza nuove regole per un suo perfetto funzionamento. Era la parola Comunità, radicalmente di origine religiosa, ad animare sogni, progetti, programmi, ricerca di nuovi saperi, riorganizzazione di apprendimenti, riadattamenti logistici dei luoghi di lavoro e di vita quotidiana. Si contrapponeva alla parola Collettivo, elemento propulsivo delle organizzazioni culturali, politiche ed economiche dell'Unione Sovietica e dei Paesi satellite. Ambedue obsolete nel linguaggio scolastico odierno. Si auspicava una scuola diversa, non selettiva, non escludente, senza libri, forse, ma con il giornale. Ipotizzata, sperimentata e attuata con pieno successo da don Lorenzo Milani, a Barbiana, nel Mugello. Furono anni di riforme e di cancellazioni di solidificate diversità di gradi di apprendimento ereditate dall'impianto gentiliano che portarono all'unificazione della scuola arricchitasi, anche, dall'innesto dell'attivismo pedagogico statunitense ed europeo. La strategia, per così dire, rivoluzionaria di quanti credevano e si schierarono per un allargamento della cultura d'ispirazione comunitaria, fu travolta,però, dalla loro stessa pavidità che aveva suggerito forme di elevata attenzione ad evitare pericolose contrapposizioni ideologiche, caratteristiche di epoche precedenti, appena sopite, che covavano, comunque, sotto cenere, contribuendo al riflusso che ne seguì. Bruciava ancora sulla pelle il tormento di vere e proprie persecuzioni mondiali contro ogni senso religioso ed in particolare contro la Chiesa di Roma e, l'adozione della parola comunità nella nuova legislazione scolastica, attutiva in qualche modo la possibilità di rinunciare ad una difesa ad oltranza contro gli abusi e le ignominie subite. Il principio della validità dell'educazione dei pari, cioè del conseguimento di conoscenze, di saperi, di tecniche, garantite dall'insegnamento dei coetanei, uno dei cavalli di battaglia di propaganda dell'epoca, senza eclatanti confutazioni del "maestro", era una proposta di sveltimento degli apprendimenti non più, necessariamente, scanditi su dichiarate e riconosciute patenti di professionalità. L'informazione, svincolata dal ricco patrimonio disciplinare dei docenti, era diventata prioritaria nei processi di formazione e di comunicazione. L'informazione, s'intende, diretta a suscitare dubbi, critiche, confronti, curiosità di conoscenze, provocazioni, più che ad assorbire contenuti irrigiditi in schemi logici di ripetitività. Ci rendemmo conto delle opportunità che ci venivano date, noi della generazione degli ultimi anni trenta, cresciuti nella nostra infanzia nel caos di un regime autoritario in rovina, non più capace di organizzare una società normale, non più garante dei primi rudimenti di scolarità elementare. Apprendemmo, forse anche in maniera piuttosto disorganica, ad imparare per "prova ed errore", a ricercare la verità, a confrontarla con i nostri coetanei, a dubitare soprattutto di quelli più arroganti, a mitigare i nostri giudizi di merito e di valutazione, a difendere le nostre idee, le nostre convinzioni disponendoci, finanche, ad un corretto, consapevole e critico cambiamento del nostro pensiero e delle nostre decisioni.

 * Responsabile dell'Archivio della Resistenza e della Memoria Barletta  


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