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"I fondi dell'Ue alla scuola o non terremo unito il Paese"

Tito Boeri L'economista: "L'istruzione unico ascensore sociale rimasto, deve essere la priorità"

21/12/2020
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La Stampa

Alessandro Barbera

Tito Boeri, già presidente dell'Inps e il più noto fra gli economisti del lavoro, sospira. Nonostante settimane di passione consumate nella zona rossa di Milano, difende la linea dura del governo. «Il rischio di una terza ondata di contagi è alto».

Il Paese boccheggia. Avrebbe tenuto tutto chiuso anche sotto Natale?

«Il governo ha tentennato a lungo per poi annunciare le chiusure solo il 24, con il risultato di far affollare strade e negozi per gli ultimi acquisti. Abbiamo cioè fatto l'opposto di Francia, Olanda, Germania».

Ora però a Natale la linea dura ci sarà eccome.

«Capisco il dramma dei commercianti, ma adesso che col vaccino vediamo la fine del tunnel, è possibile

trovare un modo adeguato di compensarli. Dobbiamo preoccuparci dei problemi di lungo termine di questa pandemia».

Ovvero?

«Mi auguro che le riaperture dei negozi non provochino un ritardo per le scuole a gennaio. In giro per il mondo la scuola viene considerata una priorità strategica. Da noi è avvenuto esattamente il contrario: prima si è pensato a ristoranti e discoteche, solo in seconda battuta a garantire l'istruzione a tutti».

Nello stesso Comitato tecnico scientifico le opinioni sono discordanti, ma essenzialmente c'è il timore che le aule siano veicolo di contagio. Lei cosa ne pensa?

«Diversi studi internazionali hanno osservato l'andamento dei positivi nelle scuole fra metà settembre e metà novembre. Ebbene, nessuno di questi ha dimostrato una particolare diffusione del virus. Il contagio sembra essere semmai nel tragitto verso la scuola. Certo, se avessimo resi pubblici i dati sui tracciamenti potremmo dirlo con maggiore precisione».

Lei è favorevole a riaprirle tutte il 7 gennaio?

«Dobbiamo essere consapevoli di cosa significa non farlo. In Campania le scuole – dagli asili ai licei – sono rimaste aperte da settembre appena 19 giorni. Stiamo parlando di intere generazioni che rischiano di restare fuori dal mercato del lavoro. La scuola è l'unico ascensore sociale rimasto. Tenere chiuse le scuole significa condannare i figli degli immigrati a non parlare l'italiano. Significa creare problemi di socializzazione e pedagogici agli adolescenti più indisciplinati. Significa creare problemi di nutrizione: basti pensare al ruolo della mensa per i bambini che vivono in situazioni di disagio».

Lei sostiene l'importanza di attingere al più presto ai fondi del Recovery. Eppure la scuola non è fra le voci prioritarie.

«Nel Recovery c'è a disposizione molto cemento per le costruzioni e le pale eoliche, meno per quello che può evitare la disgregazione sociale. Piuttosto che concentrarsi sulla ripresa, quei fondi dovrebbero essere utilizzati per tenere insieme la società».

Crede in un forte aumento delle diseguaglianze post-pandemia?

«Ci sono già segnali in questo senso, e si tratta delle diseguaglianze più odiose, perché indipendenti dall'impegno dei singoli. Penso al calo demografico, e al fatto che avremo sempre più bisogno di manodopera qualificata straniera».

Pensa sia inevitabile introdurre una patrimoniale?

«La parola patrimoniale è fuorviante, perché costringe a ragionare sul reddito dei singoli. I grandi ricchi devono spesso le loro fortune a tassazioni societarie molto basse. Non può essere più una singola nazione a risolvere il problema ma sì, la tassazione è sempre più regressiva e i grandi ricchi pagano poco. Non penso solo a quelli che guidano le big tech».

Torniamo al Recovery Fund. Lei propone al governo di chiedere all'Unione di rivedere la lista di priorità? Ben il sessanta per cento dei fondi dovrebbe andare alla transizione verde.

«Ci sono due strade per spendere quei soldi. La prima: fare appalti pubblici a sostegno degli investimenti. Ma le stazioni appaltanti sono ancora trentamila e non sono state ridotte: così rischiamo di non spendere o di farlo poco e male. L'altra possibilità è spingere sui trasferimenti».


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