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I dottorandi: «La nostra protesta costa meno dello sciopero dei prof»

Dopo la petizione per innalzare del 20 per cento le borse di studio ferme a mille euro, ora chiedono di inserire le coperture economiche nella prossima legge di Bilancio: «In tutto 50-60 milioni. Molto meno del recupero degli scatti persi dai docenti universitari»

28/07/2017
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Corriere della sera

Orsola Riva

«Non chiediamo la luna. Aumentare del venti per cento le borse di dottorato che sono ferme a mille euro da dieci anni costerebbe allo Stato fra i 50 e i 60 milioni. Molto meno, per intenderci, che venire a capo della vertenza dei professori universitari che hanno minacciato lo sciopero degli esami se non gli verranno riconosciuti gli scatti stipendiali persi fra il 2010 e il 2015» (proprio ieri al question time la ministra Valeria Fedeli ha detto che nella prossima manovra potrebbe avvenire un «parziale ristoro» del blocco, ndr). A parlare è Giulio Formenti, dottore di ricerca in Scienze ambientali alla Statale di Milano e uno dei promotori della petizione al ministro dell’Istruzione per aumentare lo stipendio dei dottorandi che è pari a due terzi di quello spagnolo o tedesco e meno della metà di quello dei Paesi nordeuropei.

Obiettivo Legge di Bilancio

Martedì sono stati ricevuti al Miur dal capo dipartimento Marco Mancini per chiedere di inserire nella prossima legge di Bilancio («l’ultima prima del baratro elettorale», chiosa Formenti) le coperture economiche necessarie per aumentare di 200 euro al mese lo stipendio dei dottorati. «Perché di questo si tratta - dice ancora Formenti -. Di un primo impiego, per di più senza scatti al secondo e al terzo anno come invece accade in molti altri Paesi».In gioco c’è da un lato il diritto allo studio - perché il dottorato rappresenta il più alto livello della preparazione universitaria - e borse così esigue contraddicono il dettato costituzionale che garantisce a «tutti i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, il diritto di raggiungere i più alti gradi degli studi» (articolo 34). Dall’altro c’è il fatto che oggi in tutto il mondo il numero dei dottori di ricerca è molto superiore a quello delle posizioni accademiche disponibili: da noi in Italia la proporzione è di 10 a 1 il che vuol dire che per gli altri nove dottori di ricerca lo sbocco lavorativo sarà fuori dall’università. «A maggior ragione lo Stato dovrebbe dare un segnale al mercato del lavoro che crede e investe in queste figure ad altissima specializzazione», dice ancora Formenti.

Fuga (a senso unico) dei cervelli

Al di là delle rivendicazioni di parte, c’è una questione di sistema che si incrocia con la vertenza dei dottori di ricerca. Quella della fuga dei cervelli, un fenomeno complesso riconducibile a diverse cause. Ma certamente una delle prime (in termini cronologici) è l’esiguità delle borse di dottorato che sono assolutamente non competitive. Così l’Italia finisce per regalare gratis agli altri Paesi giovani con una formazione di altissima qualità che è stata finanziata dalle casse dello Stato, aggiunge Formenti. Una perdita secca di capitale umano e prima ancora di capitale tout court. «Non c’è nulla di sbagliato nell’andare a fare ricerca all’estero - dice ancora Formenti -, ma il punto è che mentre le università francesi, inglesi e tedesche attraggono studenti di tutta Europa e anche italiani, le università italiane faticano ad attrarre studenti francesi, inglesi o tedeschi a mille euro al mese. Da noi a Milano arrivano ragazzi dal Nord Africa; a Roma alla Sapienza ci sono quelli dell’Est Europa. Tutti giovani di assoluto valore ma accomunati dal fatto di provenire da Paesi più poveri rispetto ai quali l’Italia mantiene comunque un vantaggio competitivo». La prossima mossa? «A settembre vorremmo consegnare a palazzo Madama o alla Camera la nostra petizione che ormai ha raggiunto 1400 firme un po’ da tutto il mondo. Ma l’obiettivo principale è la Finanziaria. In fondo converrebbe anche al governo: con una spesa relativamente bassa potrebbe portare a casa un’operazione a favore dei giovani e della ricerca di cui fregiarsi anche in campagna elettorale, no?». Peccato che chi parla stia facendo un dottorato in Scienze ambientali anziché politiche, verrebbe da dire.


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