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I calcoli di un’Italia diseguale: i dati Report/Openpolis e l’autonomia differenziata

n sistema che ha cristallizzato le differenze preesistenti, non solo tra Nord e Sud del Paese, ma anche tra aree depresse ed aree più avanzate dello stesso Centro-Nord.

14/11/2019
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ROARS

A quasi 20 anni dalla riforma costituzionale del 2001 e in una fase politica nella quale l’azzardo dell’autonomia differenziata è protagonista del dibattito politicoil dossier Report-Openpolis mette a nudo con estrema efficacia le storture del meccanismo di attuazione del federalismo fiscale e della distribuzione delle risorse che lo Stato eroga ai comuni. Un sistema che ha cristallizzato le differenze preesistenti, non solo tra Nord e Sud del Paese, ma anche tra aree depresse ed aree più avanzate dello stesso Centro-Nord. Risorse significano funzioni fondamentali e contenuto concreto assegnato ai diritti costituzionali di 51 milioni di cittadini, residenti nei 6700 comuni delle 15 regioni a statuto ordinario: istruzione, servizi sociali, trasporto pubblico locale, asili nido, polizia locale, rifiuti. Dieci anni dopo la legge delega 42 del 2009 sul federalismo fiscale, in un continuo gioco delle parti tra tecnici e politici, quali sono stati gli effetti reali sul funzionamento dello Stato? Il dossier mostra come nel corso degli anni le risorse siano andate a quei comuni già capaci di attivare determinati servizi; mentre i territori che non lo avevano fatto, non hanno ottenuto alcuna risorsa aggiuntiva per attivarne di nuovi. Una specie di Robin Hood impazzito, che ha distribuito finanziamenti in base alla regola che “tanto hai speso, tanto ti sarà dato”, generando il paradosso che chi meno ha, meno riceve, mentre chi più ha, più continua a ricevere. Un divario dolosamente e lucidamente alimentato, complice l’incapacità o la mancanza di volontà politica di dare rilevanza pubblica a un tema che tocca la vita quotidiana di tutti dalla quale dipende l’equilibrio e l’unità costituzionale del Paese. Ora più che mai, è urgente esigere dalla politica una corretta distribuzione delle risorse, oltre a una netta assunzione di responsabilità in ordine alla chiara esplicitazione di cosa è regionalizzabile e di cosa non lo è. Scuola, Università e Ricerca, Sanità, Beni Culturali, Infrastrutture e Ambiente non sono e non devono diventare materie regionalizzabili.

Il 4 novembre 2019 alla Camera dei Deputati è stato presentato un dossier dal titolo “Il calcolo diseguale”, frutto di una collaborazione della redazione di Rai – Report con la fondazione Openpolis. Il dossier è stato protagonista dell’inchiesta dal titolo “Divorzio all’Italiana”, trasmessa quella sera dalla trasmissione Report, visionabile qui.

Il dossier fa luce sugli effetti del federalismo fiscale, entrato in Costituzione nel 2001 a seguito della riforma del Titolo V, e attuato dalla l. 42/2009 (anche detta: “legge Calderoli”) per i comuni.

A quasi 20 anni da quella riforma e in una fase politica in cui l’azzardo dell’autonomia differenziata è protagonista del dibattito politico, l’analisi mette a nudo con grande efficacia le storture del meccanismo di distribuzione delle risorse che lo Stato eroga ai comuni.

Tecnicamente assai complesso, tale meccanismo ha determinato l’effetto di cristallizzare le differenze preesistenti non solo tra Nord e Sud del Paese, ma anche tra aree depresse ed aree più avanzate nell’ambito del Centro-Nord.

Le modalità attraverso le quali lo Stato distribuisce ogni anno alle sue articolazioni circa 30 miliardi di risorse erariali riguarda la vita quotidiana di 51 milioni di persone, residenti in 6700 comuni delle 15 regioni a statuto ordinario [1].

Queste risorse significano funzioni fondamentali. Esse danno contenuto concreto a diritti costituzionali del cittadinoistruzione, servizi sociali, trasporto pubblico locale, asili nido, polizia locale, rifiuti.

Tra le sue novità, la riforma del titolo V della Costituzione nel 2001 prevedeva l’adozione di misure per ridurre la disparità tra i comuni:

1) la definizione da parte dello Stato dei Livelli Essenziali di Prestazione (LEP), ossia un livello essenziale – non minimo – di prestazioni sociali e civili garantite a tutti (art. 117), una sorta di “gettone di garanzia del patto fra Stato e cittadino” idoneo, se non a risolvere di per sé le diseguaglianze esistenti nel Paese, a istituire le condizioni perché a partire da quel gettone essenziale si potesse più nitidamente comprendere la posizione assunta dallo Stato rispetto al dovere costituzionale di rimuovere le diseguaglianze (art. 3 Cost.) [2];

2) la creazione di un fondo perequativo, da distribuire ai comuni in base a determinati criteri di equità: risorse destinate ai territori più svantaggiati, che non sono in grado di svolgere le proprie funzioni fondamentali ai livelli di prestazione definiti dai LEP (art. 119).

In mancanza di definizione dei livelli essenziali da parte dello Stato – a partire dai quali indirizzare il fondo perequativo ai territori più svantaggiati – il meccanismo disegnato dal federalismo ha previsto la definizione dei fabbisogni standard per ogni comune – ovvero fabbisogni finanziari per garantire le funzioni fondamentali – da confrontare con le relative capacità fiscali – ovvero stime delle risorse del gettito fiscale del proprio territorio.

Il fondo di solidarietà comunale entra in gioco per colmare la differenza tra fabbisogno e capacità.

Tuttavia, la perequazione delle risorse ad oggi copre solo il 22.5% di tale differenza [3]. Inoltre, confrontando il totale dei fabbisogni dei comuni con il totale delle capacità fiscali, appare evidente che i primi non possono essere interamente finanziati dai secondi (mancano all’appello circa 8 miliardi di euro).

La determinazione dei fabbisogni standard è stata affidata alla Sose, una società pubblica partecipata da MEF e Banca d’Italia, mediante calcoli accessibili solo agli iniziati, certamente assai poco trasparenti per il dibattito pubblico, tanto che lo stesso Giancarlo Giorgetti, presidente della commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, nel 2015  non esitava ad affermare in commissione bicamerale:

se il federalismo aveva l’obiettivo di rendere trasparenti e chiari i meccanismi di distribuzione delle risorse, oggettivamente credo che questa missione non sia stata compiuta. Si fa decisamente fatica, anche per il circolo esoterico degli addetti ai lavori, a ricostruire i passaggi.”

Dopo circa 10 anni di gioco delle parti tra tecnici e politici, con meccanismi “esoterici” e incomprensibili di ripartizione delle risorse, quali sono stati gli effetti sul funzionamento dello Stato?

Riportiamo solo due delle efficacissime mappe del dossier, che mostrano come nel corso degli anni si sia progressivamente cristallizzato il divario tra territori: le risorse, di fatto, sono andate a quei comuni già capaci di attivare determinati servizi [4]; mentre quei territori che non lo avevano fatto perché verosimilmente non erano in grado di mobilitare risorse per farlo, non hanno ottenuto alcuna risorsa aggiuntiva per attivarne di nuovi.

Il principio sarebbe piaciuto a un Robin Hood impazzitotanto hai speso, tanto ti sarà dato, assumendo che, se un comune non ha attivato un servizio, evidentemente esso non ha interesse a offrire quel servizio.

Un altro modo per dirlo evocherebbe Pascoli: piove sul bagnato. Non però lacrime e sangue, ma risorse su risorse già resesi disponibili. Quanto scolpire l’effetto San Matteo in Costituzione, facendosi beffe di quella parte del terzo articolo della Carta fondamentale illustrando il quale Aldo Moro ebbe a commentare solennemente in Assemblea costituente:

Si tratta di realizzare in fatto, il più possibile, l’eguale dignità di tutti gli uomini.

Il senso di questo articolo è precisamente questo. Non accontentiamoci di parole, di dichiarazioni astratte, facciamo in modo, attraverso la nostra legislazione sociale, che, il più possibile, siano in fatto eguali le condizioni e le possibilità di vita di tutti i cittadini.

Nella mappa azzurra, è mostrato il fabbisogno standard (procapite comunale, nelle zone più scure, maggiore concentrazione di risorse):

Da essa risulta evidente come, basando il calcolo del fabbisogno sulla spesa storica, ai comuni con spese nulle o limitate è automaticamente riconosciuto un fabbisogno basso, generando di fatto il paradosso di San Matteo.

È interessante notare che non solo la maggior parte dei comuni del sud risulta svantaggiata da questa ripartizione delle risorse, ma anche i piccoli comuni del nord.

Tra le varie funzioni finanziate, quella per le spese sociali dà conto in modo molto chiaro della diversificazione ( nelle zone più scure, maggiore fabbisogno assegnato):

I livelli di spesa sono più alti nel centro e nel nord Italia rispetto al sud, ovvero laddove esistono territori che in partenza offrono più servizi, e che quindi continueranno a finanziarli per mantenerli attivi.

Questa distribuzione va letta congiuntamente alla mappa che mostra i territori (solo regioni a statuto ordinario, mappa bianco-viola: zone scure, maggiore disagio economico) nei quali si registra la maggiore incidenza di famiglie con disagio economico (elaborazione su dati Istat, 2011), rendendo evidente che l’effetto della distribuzione è, in sintesi, quello in base al quale: più c’è spesa sociale, più basso è l’indicatore di povertà e maggiori sono i fondi per continuare ad attivare servizi sociali; viceversa, minore spesa sociale corrisponde a maggiore disagio e a minori fondi per affrontarlo.

Questa mappa  trova una assai puntuale descrizione nei dati rivelati nel Rapporto SVIMEZ 2019 sull’Economia e la Società del Mezzogiorno, recentemente pubblicato e di cui si consiglia la lettura.

In questo consiste la cristallizzazione delle disuguaglianze, che nel nostro paese continua ad essere dolosamente e lucidamente alimentata, complice l’incapacità o la mancanza di volontà politica di dare rilevanza pubblica, con apertura di un dibattito consapevole e chiaro, ad un tema che tocca la vita quotidiana di ogni cittadino.

Un ultimo sviluppo di questo dibattito si è tenuto a Napoli il 9 novembre 2019 sul tema Autonomia regionale e giustizia sociale.

Il dossier completo Report Openpolis è invece scaricabile qui.

In tale contesto, con Veneto Lombardia ed Emilia Romagna che pretendono “ulteriori forme di autonomia”, invocando quello stesso Titolo V della Costituzione riformata nel 2001 (l’art. 116 comma terzo)  da cui originano le contraddizioni appena evidenziate, è più che mai urgente esigere dalla politica una corretta distribuzione delle risorse, una ridefinizione dei fabbisogni e  un investimento in  infrastrutture nei territori più deprivati.

Soprattutto visto il ri-affacciarsi di irricevibili proposte avanzate da un certo tipo di pensiero economico-politico  (Alesina e Giavazzi, Corriere della Sera, 11 settembre e 19 Ottobre 2019), che per fortuna almeno il lettore di questo sito dovrebbe avere imparato a conoscere, avendo da tempo ROARS dedicato a questo pensiero unico un apposita e seguitissima rubrica.

Secondo i due economisti bocconiani, la riduzione del divario Nord-Sud sarebbe infatti possibile non intervenendo per colmare il gap infrastrutturale, sociale, di servizi e risorse per gli Enti Locali, ma riducendo i salari ai cittadini meridionali (sia nel pubblico che nel privato) i quali, vivendo in territori meno produttivi, non dovrebbero guadagnare come i settentrionali.

Proposte profondamente connesse al progetto di regionalizzazione, oltre che rivelatrici del quadro politico-economico attraverso il quale leggere le rivendicazioni autonomiste di Zaia, Fontana e Bonaccini: quello di un paese ove ciascun territorio – Nord o Sud, centro o periferia –  è abbandonato al proprio destino, in uno scenario di affanno economico da “si salvi chi può”, che finisce per riguardare tutti (A. Giannola, 7 Giugno 2019, Milano).

Nel frattempo, il ministro Boccia ha previsto di approvare entro fine mese  una legge quadro di attuazione dell’articolo 116 e sta ultimando le nomine di esperti giuristi, costituzionalisti ed economisti di una consulta che lo affiancherà nella valutazione dei progetti avanzati dalle varie regioni. Ha inoltre più volte dichiarato prioritaria la necessità di definire i Livelli Essenziali di Prestazione, a distanza di quasi 20 anni dalla loro introduzione finora rimasta lettera morta.

Tutte misure che sembrano evidenziare un cambiamento di rotta rispetto al Governo “Conte 1” e la condotta del Ministro Stefani, ma che finora non sembrano essersi tradotte in un radicale cambio di passo politico.

Oltre alla messa a punto di tutti i possibili argini di tipo tecnico-normativo alle eventuali derive di autonomia differenziata, sarebbe necessaria, a nostro avviso, una netta assunzione di responsabilità politica in ordine alla chiara esplicitazione di cosa è regionalizzabile e di cosa non lo è.

Qui non si tratta di particolari funzioni amministrative: le bozze trafugate e pubblicate da ROARS lo scorso febbraio, mentre l’Italia e il dibattito politico apparivano assorbiti soprattutto dalla paura migratoria, mostrano ben altro. E lo riconfermano anche le bozze venete consegnate allo stesso Boccia nel settembre scorso e da noi rese pubbliche qui.

Scuola, Università e Ricerca, Sanità, Beni Culturali, Infrastrutture e Ambiente non sono e non devono diventare materie regionalizzabili.

[1] Vedi intervento Dr. Smaldore, consulente Openpolis, al video: https://www.radioradicale.it/scheda/588982/presentazione-de-dossier-di-openpolis-in-collaborazione-con-rai-report-il-calcolo/stampa-e-regime

[2] M. Villone, “Risposte non all’altezza, autonomia rischio intatto”, Il Manifesto, 5 Novembre 2019.

[3] M. Esposito in “Zero al Sud”, Rubbettino Editore, 2018.

[4] È ormai noto a livello nazionale lo scandalo rappresentato dall’attribuzione di un fabbisogno zero per gli asili nidi in tanti comuni del sud Italia, meritoriamentedistri denunciato da M. Esposito nel libro su menzionato.


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