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Guerra ai fuori corso. Le università italiane contro i «ritardatari cronici»

Pesano sulle casse universitarie perché non vengono conteggiati nella distribuzione dei fondi da parte del Miur. Ecco perché sempre più atenei adottano dei regolamenti che li mettono alla porta dopo un tot di anni. Spesso usando anche la leva delle tasse

20/11/2016
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Corriere della sera

Gianna Fregonara e Orsola Riva

Guerra ai fuori corso. O più precisamente ai lungo degenti dell’università: quelli che entrano un giorno per non uscirne mai più. Sì, perché un conto è metterci quattro anni per farne tre: un lieve ritardo può anche essere connesso a un maggior approfondimento degli studi. Tutt’altro è laurearsi dieci anni dopo, a meno che tu non sia uno studente-lavoratore naturalmente. Oggi nessun ateneo è più disposto a tollerare inutili trascinamenti. Tanto più visto che il nuovo sistema di ripartizione dei fondi basato sul cosiddetto «costo standard» conteggia solo gli studenti regolari, trasformando i fuori corso in anime morte che pesano sulle casse degli atenei come un passivo fisso. Ecco perché sono sempre di più le università che decidono di fare piazza pulita. Vuoi usando la leva delle tasse universitarie: alla Sapienza, a partire dal terzo anno, si paga il 50 per cento in più. Vuoi fissando dei paletti molto stretti, come al Politecnico di Torino: se entro la fine del secondo anno non hai finito gli esami del primo semestre, non puoi iscriverti al terzo e comunque per compiere tutto il percorso non puoi metterci più del doppio del tempo previsto, pena la decadenza dell’iscrizione.

Il caso di Bologna

A marzo 2017 dovrebbe toccare anche alla rossa Bologna: fuori tutti quelli che non finiscono gli studi entro il termine del quarto anno di iscrizione fuori corso nel caso delle lauree triennali e magistrali o entro il doppio del tempo necessario nel caso delle lauree a ciclo unico. Sempre però che la raccolta di firme lanciata dagli studenti dell’Alma Mater sul sito Change.org contro «una norma ingiusta che lede il diritto allo studio garantito dalla Costituzione» non convinca il rettore Francesco Ubertini a nuovi ritocchi o ad altri rinvii, come ha già fatto il suo predecessore Ivano Dionigi. Dal rettorato fanno sapere che la questione verrà affrontata in sede di consiglio studentesco a dicembre e che si cercherà di trovare una soluzione condivisa. «Siamo più che disponibili a una revisione delle regole per renderne tollerabile l’impatto sulla popolazione studentesca», dice il pro rettore vicario Mirko Degli Esposti, che ci tiene però a sottolineare come negli ultimi anni gli studenti siano diventati molto più regolari. Oggi si laureano in corso quasi il 60 per cento degli studenti (contro il 43 per cento di 5 anni fa) e se si sommano ai fuori corso lievi (entro un anno) si arriva all’80 per cento, mentre quelli oltre il secondo anno sono scesi dal 30 al 21 per cento.

Ritardatari in calo e matricole in fuga

Ma nel resto del Paese come va, quanti sono i fuori corso? E sono davvero una stortura tutta italiana, come sosteneva il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, il primo a voler ingaggiare un duello con i «bamboccioni» dell’università a colpi di rialzi delle tasse? L’ultima rilevazione ufficiale fatta dall’Anvur nel 2013, l’organismo di valutazione del sistema d’istruzione terziaria, parlava di circa 700 mila fuori corso, pari al 40 per cento degli iscritti totali. Un numero importante, ma in costante discesa. Secondo il rapporto Almalaurea del 2016 oggi il ritardo alla laurea si è più che dimezzato rispetto a prima della riforma Berlinguer, passando da 2,9 a 1,2 anni. Anche la percentuale di chi finisce gli studi in corso è sensibilmente aumentata: quasi la metà dei laureati è regolare (47 per cento: nel 2001 non arrivavano neanche al 10 per cento). In America, solo per fare un confronto, meno del 40 per cento dei ragazzi riesce a prendere il bachelor nei 4 anni di ordinanza. Anche i laureati al terzo anno fuori corso e oltre - quelli interessati dai famigerati provvedimenti sulla decadenza degli studi - sono più che dimezzati. Erano il 53 per cento, sono diventati il 20 per cento. Un trend positivo che si presta però a una lettura meno favorevole se si calcola che negli ultimi dieci anni il sistema universitario ha visto sparire quasi il 20% delle matricole, con un’inversione di tendenza solo a partire dall’anno scorso. Viene cioè da pensare che la maggiore regolarità nei tempi di studio sia stata anche il prodotto di una selezione darwiniana all’origine.

Un mistero tutto italiano: così un anno diventa lungo 16 mesi

E comunque ancora molta strada resta da fare se mediamente per acquisire i crediti di un anno uno studente italiano ci mette un anno e quattro mesi. Nel Regno Unito, patria del «common sense», sarebbe semplicemente impossibile: o fai tutti gli esami in tempo o sei fuori. Va detto che l’indice di ritardo varia tantissimo a seconda dei corsi di laurea, con picchi negativi per Giurisprudenza e record di marcia a Medicina e più in generale nei corsi ad accesso programmato.

Il divario Nord-Sud

L’Anvur sottolinea come il problema dei fuori corso abbia anche una declinazione regionale, con picchi negativi nel Meridione. Secondo il rapporto della Fondazione Res sui divari universitari Nord-Sud a pesare negativamente sono soprattutto le scarse competenze in entrata: in altre parole il ritardo che gli studenti meridionali accumulano durante le scuole superiori e che li relega al livello dei colleghi kazakhi nelle classifiche internazionali come l’Ocse–Pisa si trascina e si moltiplica inevitabilmente anche all’università. Con un paradosso ulteriore: che negli ultimi anni le università meridionali sono state private anche dell’innesto positivo degli studenti migliori, i quali appena possono fanno le valigie e vanno al Nord. E un rischio di sistema legato al nuovo costo standard che, come sottolineato dal Cun, il parlamento universitario, potrebbe ingenerare negli atenei meno virtuosi una «gestione opportunistica» delle carriere universitarie. Leggi: una spintarella a far passare i ragazzi senza andar troppo per il sottile, abbassando l’asticella degli esami, con un danno evidente della qualità del processo formativo.


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