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Giusto metterlo tra i classici ma fategli posto nei programmi

Malgrado sia morto nel 1990, Giorgio Caproni, in sostanza, è una voce recente, che quindi, molto spesso, si studia poco, male e troppo in fretta.

22/06/2017
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la Repubblica

Valerio Magrelli

Eppure la decisione di eleggerlo a classico va salutata con gioia, perché oltretutto la sua scrittura si mostra spoglia e diretta, addirittura sconcertante per la francescana nudezza. Diverso sarebbe stato, per capirci, indicare Zanzotto, altro grande maestro, ma assai più complicato, ameno a una prima lettura. Caproni, infatti, può essere affrontato anche senza conoscerlo da vicino.

Del resto, la sua stessa biografia suona scarna, essenziale: nato a Livorno, trasferitosi prima a Genova poi a Roma, fu partigiano, maestro elementare e traduttore dal francese. Magrissimo, arguto, defilato, inseparabile dalla sigaretta, amava suonare il violino.

Certo, chi volesse approfondirne l’opera dovrebbe partire da quella “ontologia negativa” che affascinò Calvino. Come per Nietzsche, anche per Caproni “Dio è morto”, al punto da trasmettere, come per contagio, il senso di una disperata “teopatia”, cioè un malessere dato dalla mancanza di Sacro. Così, la condizione della nostra esistenza si configura come un esilio. Ma tutto ciò non viene espresso in una cupa lingua da tragedia, bensì quasi scherzando, con movenze da arietta, da stornello o canzone (c’è chi ha pensato a Saba), tra vocalizzi e cori, rime e arpeggi. Buono a sapersi, diranno i candidati, ma come ce la caviamo noi, noi che non l’abbiamo fatto (dove «fatto» significa «commentato in classe»)?

Ebbene, una volta tanto, il testo parla da solo, a condizione di saperlo ascoltare. Già nel titolo, dal termine «versicoli», trapela l’amara ironia dell’ispirazione. Queste non sono le roboanti strofe di un Manzoni, bensì poveri “trucioli“, simili a quelli di un altro poeta, Camillo Sbarbaro, ligure e amato da Montale. Proprio come una celebre composizione di quest’ultimo («Non chiederci la parola… »), quella di Caproni inizia con due negazioni, in forma di divieti rivolti alla rapacità degli uomini: rispettiamo la natura, mari e libellule, venti e pini.

Va bene, sì, ma come la mettiamo con le improvvise apparizioni del lamantino e del galagone? Tranquilli: forse, prima di comporre la lirica, nemmeno Caproni sapeva cosa significavano questi due termini (una specie di tricheco e una piccola scimmia). Essi, anzi, vengono evocati proprio perché sconosciuti — a indicare l’infinita varietà della Terra e dei suoi nomi. Caproni, insomma, usa parole difficili solo per dimostrare la ricchezza di quel creato che stiamo rovinando. Quanto all’imprenditore che distrugge il globo, beh, io parlerei di profezia: vi dice niente Trump e la rottura del trattato sul clima?


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