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Fuoriregistro-Quel certo lezzo di prete-di Marino Bocchi

Quel certo lezzo di prete di Marino Bocchi - 22-05-2002 C'era un sasso, un grosso sasso squadrato, nel parco della mia piccola citta, 'bastardo posto' la cantava Guccini. Ci riunivamo la' a...

22/05/2002
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Fuoriregistro

Quel certo lezzo di prete
di Marino Bocchi - 22-05-2002

C'era un sasso, un grosso sasso squadrato, nel parco della mia piccola citta, 'bastardo posto' la cantava Guccini.
Ci riunivamo la' attorno verso sera, dopo le riunioni del comitato di base della nostra scuola, dove il
pretesto era discutere di politica ma l'unico mio interesse aveva 18 anni ed un volto dolcissimo.
E c'era una mescita dalle parti del Duomo, il quale
adesso e' patrimonio dell'Unesco ma per me resta sempre un posto dove cercare il fresco nei giorni oppressi dall'afa (questo uso sacrilego delle
Chiese lo praticava anche Fellini sotto le volute barocche di Roma, come imparai anni dopo).
E' in quella mescita che una sera di estate strisciante
incontrai, per la prima volta, Don Milani.
Aveva due spalle larghe, da contadino e una barba talmente folta che lasciava scoperti solo due occhi
piccoli e acquosi, offuscati dal vino ma lo sguardo, quello sguardo disperato e fiero, rabbioso, io e i miei compagni che ci riunivamo intorno alla pietra, non lo avremmo mai dimenticato. Quello sguardo ti apriva lo
scrigno del mondo.
E le parole, le sue parole. Non so se l'uomo a cui
quello sguardo apparteneva sia ancora vivo o morto, magari sotto un albero della Patagonia, dove sognava di finire.
Faceva l'insegnante di Lettere.
Era il nostro insegnante, quello di cui tutte le nostre compagne di classe erano innamorate (beh, non proprio tutte, non per esempio colei che
acquistava da me Lotta Continua perche' sperava di trovarci l'oroscopo prima di entrare in classe).
E non era un tipo che scherzava, quello.
Pretendeva anzi che ci buttassimo d'impegno a studiare La Ginestra, letta da Timpanaro e Luporini o la peste di Milano dei Promessi Sposi raccontata
nell'ottica della Storia della colonna infame.
Quella sera, in quella mescita, teneva nella tasca dell'Eskimo un libretto, ci condusse al Monte
Grappa, cosi' si chiamava la pietra, e comincio', quasi sussurrando, a leggercelo.
Era 'Lettere ad una professoressa'.
Nello stesso anno, era il '73, io ancora non sapevo che Pierpaolo Pasolini aveva scritto, proprio su
Don Milani, quello che resta il ritratto piu' denso, poetico, sconvolgente del prete ribelle e di Barbiana, la parrocchia perduta nell'Appennino formata da nemmeno un centinaio di anime sparse qua e là tra i desolati e deprimenti pendii di quei monti'.
Lessi quel testo aspro, attraversato da
un amore profondo e furioso e sempre sul punto di capovolgersi nel suo contrario (come tutti i grandi amori di Pasolini, perche' questo era il suo
unico modo di amare) solo anni dopo, quando uscirono gli 'Scritti corsari' (Don Lorenzo Milani: "Lettere alla mamma" -o meglio: "Lettere di un prete cattolico alla madre ebrea"- pagg. 148-153, Garzanti).
Il comunista Pasolini non fa sconti al priore cattolico: ricorda il suo conformismo giovanile, durante il periodo trascorso in seminario, negli anni del fascismo e della guerra e ricorre ad un vertiginoso accostamento tra il Don Milani giovane, disposto alla 'più totale obbedienza e sottomissione' alle autorita' ecclesiastiche e la predisposizione dei suoi
coetanei a servire il fascismo, in quanto potere dominante ('una abnegazione di carattere naturalmente masochistico e autopunitivo').
Ma poi qualcosa avviene.
Qualcosa succede.
'Don Milani diventerà Don Milani, e il suo rapporto con le Autorità si rovescerà completamente'. E anche se 'nel periodo della maturità quel certo lezzo di prete continua ad emanare dalla figura di Don Milani', quel qualcosa di nuovo e' il 'pragma' che si sostituisce o si integra all'iniziale misticismo.
Al di la' dell'argomentazione circa il senso e la natura di questo pragma, di questa cultura del fare, di quella che Pasolini chiama l'ossessione organizzativa
del parroco di Barbiana; al di la' dell'accostamento alla figura e all'opera di San Paolo (vero topos di tutta una vita, fino a far suggerire a qualche studioso la fantasiosa congettura secondo cui la morte stessa di
Pasolini sarebbe riconducibile ad una finale e tragica identificazione, per la scelta dei tempi e dei luoghi, con l'apostolo delle genti); al di la' di tutto questo groviglio di pensieri, pulsioni, ambivalenze affettive, cio' che da' corpo e vita a questo sforzo del priore, secondo Pasolini, e' lo spirito critico, trasgressivo, legato ad un idea di riscatto di un mondo che gia', per il Pasolini del '#8216;73, non c'era piu', il mondo del
sottoproletariato contadino, ormai in via di completa assimilazione.
E' questo connubio di spirito critico e impegno organizzativo a rendere Don Milani, 'infine, malgrado tutto, un uomo adorabile', una 'fìgura disperata
e consolatrice', e 'un personaggio fraterno nel nostro universo'.
Sconfitta dalla storia ('Se Don Milani non fosse morto di una di quelle morti atroci che egli aveva sempre preso con tanta naturalezza, quasi sprezzante, e con
un po' di eccessiva letizia evangelica, avrebbe visto, oggi, la sua meravigliosa opera organizzativa come un conato inutile, divenuto anacronistico') la vicenda di Barbiana resta, scrive Pasolini, 'l'unico atto
rivoluzionario di questi anni'.

Riprendere la lezione di Don Milani significa saper ripartire da questo anacronismo, ritrovare il coraggio dell'utopia e della disobbedienza e organizzare intorno a esse la nuova Barbiana, perche' c'e' ancora tanta gente umiliata e offesa, in cerca di un riscatto.
Ed e' gente nostra.


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