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Faccia a Faccia sulla riforma Moratti-Intervista ad Aldo Tropea

https://www.casadellacultura.it/scuola/ Faccia a Faccia sulla riforma Moratti Intervista ad Aldo Tropea Aldo Tropea E' dirigente scolastico di scuola secondaria superiore dal 1985. È stato...

07/02/2002
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https://www.casadellacultura.it/scuola/

Faccia a Faccia sulla riforma Moratti
Intervista ad Aldo Tropea

Aldo Tropea
E' dirigente scolastico di scuola secondaria superiore dal 1985. È stato coordinatore per tre anni della Commissione Aggiornamento (settore superiori) del Provveditorato agli Studi di Milano, dal 1999 è segretario generale presso l'IRRE (ex IRSAE) Lombardia.

La scuola sta attraversando un periodo particolarmente burrascoso tra riforma e contro riforma, forse varrebbe la pena, per riprendere le fila del discorso, cominciare col definire precisamente quali sono i punti dolenti, quali gli elementi da cambiare.

Non condivido affatto certi giudizi sul presunto "sfascio" della scuola italiana e mi pare piuttosto che il problema della formazione sia oggi irrisolto in tutti i grandi paesi avanzati, proprio a causa del mutamento profondo della sua funzione sociale.
Questi processi sono stati accompagnati in tutto il mondo industrializzato da una drammatica contraddizione tra la presa di coscienza teorica della centralità della formazione e della necessità di un suo avvicinamento all'impresa e una realtà contrassegnata da una drastica diminuzione relativa degli investimenti e da una crescente difficoltà a ridurre il livello dell'insuccesso scolastico. D'altra parte, la scolarizzazione di massa aveva avuto come riflesso la crescita numerica e l'abbassamento del prestigio sociale degli insegnanti che sono diventati sempre più frequentemente il bersaglio di critiche tendenti ad attribuir loro la responsabilità per l'abbassamento dei livelli di apprendimento.
Il problema è insomma quello di saper garantire tendenzialmente a tutti i giovani un livello di conoscenze e di competenze tali da permettere loro la migliore realizzazione personale e al paese di sostenere la competizione internazionale, in un mondo in cui si affermano agenzie formative concorrenti, con cui bisogna saper entrare in rapporto dialettico.
Per raggiungere questo obiettivo occorre che la nostra scuola, ancora oggi sostanzialmente gentiliana, sappia affrontare alcuni nodi:

1. realizzare una continuità tra i diversi "ordini e gradi" verticali di scuola, tale da evitare sprechi e ripetizioni e da poter lavorare su competenze e conoscenze realmente accessibili e con percorsi metodologici adeguati ai vari stadi di sviluppo cognitivo ed affettivo;
2. integrare l'offerta formativa della scuola con quella del territorio, cioè collaborare con tutte le agenzie educative nella fascia dell'obbligo e con il mondo del lavoro nella fascia secondaria, in maniera da ridurre il gap tra istruzione e formazione professionale, tra cultura scolastica e cultura del lavoro, un troppo precoce abbandono del percorso formativo e una insufficiente possibilità di longlife learning;
3. sviluppare nell'università il terreno della didattica;
4. creare un sistema stabile e diffuso di monitoraggio e valutazione, capace di raccordare l'intervento esterno sui risultati ( che considero indispensabile, ma parziale) con quello sui processi;
5. intervenire sull'organizzazione del lavoro a scuola rendendo davvero possibile flessibilità e articolazione del tempo scuola e della professione docente;
6. sviluppare l'autonomia delle istituzioni scolastiche e la loro capacità "imprenditoriale", cioè di intraprendere innovazione e rapporto con la società;
7. inserire la grande tradizione della scuola italiana nel contesto del dibattito europeo.

La riforma Berlinguer e la riforma Moratti mettevano a fuoco questi problemi? Cercavano ed eventualmente trovavano una risposta realistica?

Berlinguer ha certamente avuto l'enorme merito di aver dato lo strappo necessario a fare uscire il sistema da un immobilismo decennale e ha affrontato di petto le questioni più importanti. Troppo spesso però in un motore nuovo di zecca ha continuato a circolare un combustibile vecchio, che lo ha ingolfato e a volte guastato. Per esempio, senza alcun dubbio non è possibile cambiare volto alla scuola senza modificare sostanzialmente lo statuto professionale della professione docente, chiamata ad evolvere da una situazione di esecuzione di programmi altrui ad una progettazione originale di percorsi. Questa operazione non è stata neppure cominciata, e non credo solo per resistenze sindacali alla flessibilità, alla valutazione, all'allungamento dei tempi della prestazione, ma per una ostinata incapacità generale a pensare all'insegnamento e all'apprendimento in termini meno individualistici e trasmissivi: si pensi solo al permanere dell'assurda divisione tra orario di lezione ed orario di servizio. In altri termini, non è stato possibile affrontare la questione dello "stato giuridico" perché a monte non è stata sufficientemente chiara e forte l'idea di scuola che esigeva di affrontarla: una scuola capace di uscire dal suo mondo protetto e di navigare nel grande mondo della competizione, sia pure con una forte "missione" affidatale dallo stato.
Berlinguer non è stato sufficientemente sostenuto dal alcuni settori della sua stessa maggioranza e della sua base sociale, in cui si mescolavano e si mescolano istanze di cambiamento, fenomeni di disincanto e di vero e proprio conservatorismo.
Quanto alla riforma Moratti, trovo che si possa consolidare attorno ad alcune proposizioni del documento Bertagna un'idea francamente conservatrice della scuola e della "serietà degli studi", elitaria ed anacronistica. Ma ancor più temo che, al di là delle contrapposizioni polemiche, il risultato possa essere un puro e semplice blocco del processo riformatore. È come se stessimo dicendo alle famiglie e agli insegnanti: "i governi passano, quella che rimane intatta è la vecchia scuola con i suoi problemi e le sue ritualità".
Non so se attraverso la delega il governo chiarirà meglio gli indirizzi e sue intenzioni: lo spero, e spero che accoglierà il contributo che sta venendo da tutti coloro i quali, anche criticamente, entrano nel merito, ma non mi pare che ci sia oggi uno spessore d'analisi sufficiente ad affrontare nodi che esigerebbero rigore metodologico e capacità operativa altissima.
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La riforma Moratti è in qualche modo una reazione alla riforma Berlinguer, non può essere che per risolvere gli aspetti negativi di questa si debba partire da quella che l'ha preceduta e dalle ragioni del suo fallimento?

Certamente sì. La crisi del riordino dei cicli era del resto già evidente prima delle elezioni, non perché ci fossero obiezioni serie di carattere politico o pedagogico, ma per l'ottima ragione che non erano stati approntati seriamente gli strumenti attuativi in termini di organico, di risorse, di stato giuridico. Gli insegnanti vedevano nella riforma la prospettiva di un grande sforzo culturale e professionale, magari anche condiviso, ma di fronte al quale si trovavano come "a mani nude".
È come se ci si fosse illusi che, siccome in molte zone di qualità delle scuole elementari la riforma era già matura come esigenza e in parte come prassi (cosa vera), ciò bastasse a generalizzarla. Non si tratta qui infatti di fermarsi a poche esperienze di eccellenza, ma di utilizzare queste buone pratiche per fare sistema, per costruire e generalizzare modelli.
Servono consenso, soldi e cooperazione inter-istituzionale: ma questo servirà comunque anche a Moratti.

Nessuno pare essere soddisfatto della proposta di riforma del Ministro Moratti: critiche vengono dai sindacati, ma anche da Confindustria, dalle regioni, dagli studenti, ma anche dagli insegnanti e dai presidi. Infine, lo stop è arrivato dal consiglio dei ministri: solo venerdì scorso (1 febbraio 2002) il governo ha firmato il Decreto Legge.

Sarà difficile, ma è necessario ri-creare un ampio consenso intorno ai problemi reali. Per fare questo è prima di tutto necessario sgomberare il campo da alcuni pregiudizi: quella, per esempio, che è stata espressa autorevolmente durante agli Stati Generali, secondo cui bisogna finalmente chiudere il capitolo della riforma voluta "dai comunisti". Oppure l'altra, di chi pensa al liceo come all'unica scuola degna di questo nome. Ma anche di chi teme la valutazione come attentato alla libertà di insegnamento
La riforma, per usare questo orribile termine, deve essere "bipartisan", se vuole essere efficace. Non si tratta di essere consociativi, ma è l'esperienza quotidiana a dire che si consolida solo ciò che convince in profondità molti, se non tutti, i settori più importanti di società.
Chiunque voglia proporre soluzioni incisive deve misurarsi con gli elementi che della riforma Berlinguer restano vivi e vitali: i processi relativi all'autonomia e all'integrazione sul territorio, la necessità di affrontare i temi del rinnovamento culturale, persino a prescindere dall'ingegneria istituzionale.

Divisione precoce tra formazione professionale e istruzione, il modello di scuola-azienda e il problema di garantire pari opportunità a tutti gli studenti sono i temi più caldi che la riforma Moratti ha sollevato. Quali sono i rischi maggiori connessi a questa proposta di legge?

Francamente penso che il rischio maggiore della proposta Moratti stia nel fatto che i suoi obiettivi sembrano ridursi al momento veramente a poca cosa. Chiuso il discorso dei licei a quattro anni, criticatissimo l'anticipo della scuola elementare a cinque anni, circondato da dubbi e incertezze il biennio di raccordo tra quinta elementare e prima media, rinviato nella sostanza alla Conferenza Stato-Regione l'osso duro della devoluzione delle competenze dell'istruzione tecnica e professionale, che cosa resterà? La valutazione biennale invece che annuale e l'abolizione dei crediti in ordini di scuola in cui non esistono in pratica né l'una né gli altri? Se invece guardiamo al documento Bertagna, cioè all'impalcatura teorica, osservo che si utilizzano intere pagine a dire che nella società della conoscenza non ha più senso una divisione tra scuola e formazione professionale che significhi una gerarchizzazione qualitativa a favore della prima. Anche agli Stati Generali Bottani ha bollato con parole di fuoco la distinzione tutta e solo italiana tra "istruzione" e "formazione" professionale. Senonché, l'ingegneria istituzionale proposta di fatto ridisegna un modello di gerarchizzazione e non tanto - si badi bene - perché si distinguono i percorsi - cosa che a mio parere ad un certo punto è inevitabile e giusta - ma perché si pretende di disegnare un percorso - la licealità - cui viene precluso altro sbocco che non sia il proseguimento degli studi, mandando nel dimenticatoio le cose migliori fatte nella sperimentazione assistita degli anni Ottanta e Novanta. L'idea secondo cui la marca della licealità - ossia della cultura tout court secondo alcuni - sia la mancanza di operatività la dice lunga sull'arretratezza culturale di molti difensori dei cinque anni di secondaria. Proprio questa assurda cesura indebolisce la possibilità di istituire una vera e propria osmosi tra sistemi, che rappresenta invece la vera necessità di oggi.
Sfido che la Confindustria non sia d'accordo! E poi: quale sarebbe il profilo professionale che si collocherebbe ad una possibile formazione di primo livello?
Ma debbo francamente dire che certe impostazioni critiche da sinistra mi lasciano perplesso. La "canalizzazione precoce" a quindici anni è quella che esiste in quasi tutta l'Europa e il problema di fasce studentesche refrattarie alla scolarizzazione è vissuto come grave problema da moltissimi insegnanti del biennio della secondaria superiore, anche perché è collegato alla questione dell'inserimento dei disabili. I veri e drammatici problemi su questo punto non sono ideologici ma operativi e sono quelli che si era cominciato con fatica ad affrontare negli ultimi due anni: l'assenza di moduli di orientamento reale che avviino ai percorsi di obbligo formativo e la totale mancanza in mezza Italia di strutture di formazione professionale regionale. È sulla mancanza di indicazioni su queste problematiche che si può e si deve criticare l'anacronismo dell'impostazione proposta.
Quanto alla questione del modello aziendale, penso che dovremmo cercare di chiarire al più presto che le moderne aziende dei lavoratori della conoscenza sono rette da modelli organizzativi basati sulla condivisione che mi piacerebbe molto fossero conosciuti ed applicati anche nelle scuole. Il fatto che la scuola, come è ovvio, non sia un'azienda, non può voler dire che ha il diritto di essere disorganizzata o svincolata da qualunque ragionamento di analisi costi-benefici, proprio perché pubblica.

Non sarebbe il caso di prendere in considerazione una "terza via", invece di fare continui aggiustamenti?

Se si intende una "terza via" tra due architetture definite e contrapposte, non sono proprio d'accordo. Se invece si intende imboccare un cammino che è capace di modifiche in corso d'opera, ma sulla base di una solida idea di scuola europea, allora credo che proprio questa sia l'ottica giusta. Noi dobbiamo pensare al fatto che le generazioni future possederanno, rispetto a noi, molte più informazioni e occasioni di informazione. Il problema, dunque, sarà principalmente quello che abbiano voglia di acquisirle e utilizzarle; la famosa "motivazione" allo studio, alla riflessione, all'approfondimento personale che rende più alta la qualità della vita e rende possibile il protagonismo sociale.
In questo noi incontreremo una contraddizione singolare: le aziende desiderano già oggi dai loro lavoratori formazione critica ed assunzione di responsabilità, salvo poi agire su un mercato che considerano composto da consumatori beceri e manipolabili.
Il nostro problema di educatori sarà quello di ricomporre questa contraddizione attraverso la consapevolezza dell'unità della persona, del superamento di quella che una volta si chiamava alienazione: ciò richiede operatori scolastici dallo stile di vita e di lavoro non impiegatizio, un impegno professionale e un riconoscimento sociale di altissimo livello.
La "terza via" che vorrei è questa: per imboccarla bisognerebbe cominciare da subito a vedere con realismo quello che è possibile fare, ma non dimenticando che da qui parte una vera nuova centralità della conoscenza, utile ad allargare le relazioni della persona e a costruire le condizioni del suo ben-essere.

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