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"È vero, siamo un Paese per vecchi anche se abbiamo le università migliori"

L´oncologo Gattinoni a 30 anni è andato negli Usa: qui ti prendono sul serio a prescindere dall´età

02/01/2011
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la Repubblica

 

 
 
ELENA DUSI


ROMA - «Ero un medico specializzando e con alcuni colleghi riuscii a pubblicare una ricerca su una rivista importante. Avevamo trovato una terapia efficace per un paziente con un melanoma che in genere lascia solo sei mesi di vita. Fu una soddisfazione enorme. Ma quando lo raccontai al mio primario, lui mi disse "Pensa a fare cose più importanti" ritenendo che non sarebbe mai stato pubblicato».
È uno degli ultimi ricordi italiani di Luca Gattinoni, che ha lasciato l´Italia a 30 anni alla fine della specializzazione in oncologia all´università di Milano e all´Istituto Nazionale Tumori e oggi è "staff scientist" (qualcuno lo tradurrebbe con "scienziato col posto fisso) al Center for Cancer Research, la punta di lancia del settore della ricerca oncologica dei National Institutes of Health americani.
Ha ragione il presidente Napolitano a dire che in Italia le opportunità per i giovani sono soffocate?
«L´Italia è un Paese per vecchi. Una delle prime cose che ti colpiscono quando arrivi negli Stati Uniti è quanto tu venga giudicato in base a quel che vali, non alla tua età. L´insegnamento universitario in quel Paese non è affatto migliore del nostro, anzi. La mole di studio è superiore in Italia, la preparazione di base molto più ampia e di larghi orizzonti. Ma io sono sicuro che se avessi chiesto il permesso al mio primario, quell´articolo non lo avrei scritto mai».
Come nacque l´idea di scriverlo?
«Un giovane oncologo in Italia si sente spesso incastrato. Le sperimentazioni di nuove cure sono in mano ai grandi centri. A pubblicare i risultati sono in genere i primari, e la manodopera dei giovani collaboratori ha poche speranze di essere riconosciuta. Quell´episodio mi ha insegnato che è meglio chiedere scusa dopo, che non chiedere il permesso prima».
Nelle pubblicazioni scientifiche americane invece si trovano spesso nomi di studenti.
«E non solo studenti. Ora nel nostro laboratorio c´è un ragazzo che ha appena finito la laurea breve. Prima di iscriversi a medicina ha scelto di passare due anni "assaggiando" il mondo della ricerca. Ha molta voglia di lavorare e in team con altri colleghi ha già pubblicato quattro articoli di primo livello. Quel che conta negli Usa non sono i titoli di studio, ma la revisione cui periodicamente - da noi ogni quattro anni - sono sottoposti un´équipe di ricerca e le sue pubblicazioni».
Di fronte ai tagli a università e ricerca in Italia, chi lavora negli Usa tira un sospiro di sollievo?
«Sì, ma io mi trovo in una realtà particolare. I National Institutes of Health sono un ente governativo che riceve fondi pubblici in maniera abbastanza uniforme nel tempo. In Italia invece buona parte dei finanziamenti viene dal settore privato, in particolare dall´Airc per l´oncologia».
È l´insicurezza l´ostacolo al rientro dei ricercatori?
«A volte sono tentato dall´idea di tornare, anche se gli stipendi sono nettamente più bassi. Ma quel che veramente conta per uno scienziato non è la busta paga. Sono piuttosto le condizioni per fare ricerca ad alto livello, cioè i fondi per il laboratorio e l´autonomia. Senza di quelli, bastano solo due o tre anni per uscire dal giro della scienza di primo piano. E a quel punto rientrarci è difficilissimo, si rischia di finire bloccati per sempre».


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