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E il professore scrive alla ministra “Pagato per non lavorare. Ora basta”

“Per 18 ore a settimana sto seduto in aula docenti ad aspettare che mi mandino in classe”. Lo sfogo di un insegnante di filosofia: “Lo chiamano potenziamento, ma mi vergogno: ridatemi il mestiere per cui ho studiato”

26/01/2017
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la Repubblica

Salvo Intravaia

E'  assurdo. Mi pagano per non lavorare e, oltre a sentirmi derubato del mio lavoro, mi vergogno a dirlo a chi fatica ogni giorno per guadagnarsi da vivere». Quello di Daniele Costantino, professore di filosofia originario di Marineo, nel Palermitano, in servizio da quest’anno all’Alfieri, prestigioso liceo classico torinese, più che una denuncia, è uno sfogo.

Come sarebbe, la pagano per non lavorare?

«Il mio impegno è quasi zero. Vado a scuola per 18 ore a settimana, timbro il cartellino, passo dai bidelli per vedere se mi hanno assegnato qualche sostituzione. Se non è così, mi siedo in sala professori e aspetto. Questa è la mia vita, da quattro mesi a questa parte. Ogni mattina alle sei, quando mi sveglio, spero di uscire da un incubo. Mi illudo che sia ancora il 13 agosto, quando dovevano uscire i risultati delle richieste di trasferimento. Poi mi alzo, guardo fuori: è buio, fa freddo. Guardo la data sul telefono. E realizzo che è vero: anche oggi andrò a scuola per non sapere cosa fare».

Come è potuto succedere?

«L’estate scorsa ottengo il trasferimento all’Alfieri, sulla classe di concorso A036: Filosofia, psicologia e scienze dell’educazione. Lì per lì la cosa mi sorprende, perché al classico la filosofia è abbinata alla storia e affidata ai docenti di un’altra classe di concorso. Io ho anche quell’abilitazione, ma è un puro caso. Così ad agosto contatto la scuola e i dubbi aumentano: il mio incarico, mi comunica il preside, non è in classe ma sul “potenziamento”».

Cioè?

«Un contingente di docenti aggiuntivi, introdotto nel 2015 dalla Buona scuola, per fare attività di recupero, ampliare e migliorare l’offerta».

Sembra una bella cosa.

«Lo è, ma solo sulla carta. E anche l’esperienza non mi lasciava presagire niente di buono: avevo visto validi colleghi neo-assunti parcheggiati in aula insegnanti, a disposizione per le supplenze o impiegati in qualche progetto marginale. Ma il dirigente mi ha rassicurato: il mio lavoro sarebbe stato gratificante».

Non lo è stato?

«Assolutamente no. L’anno è iniziato e, riunione dopo riunione, settimana dopo settimana, mi è apparso chiaro quale fosse il “lavoro gratificante”: stare a disposizione 18 ore a settimana, senza un progetto, senza un posto né un compito precisi».

Solo supplenze, e poche?

«Quasi. Con le uniche eccezioni di qualche attività extrascolastica (cinema, manifestazioni) o delle visite d’istruzione: accompagno le classi in uscite didattiche già organizzate. Qualche collega, impietosito dalla mia situazione, mi ha chiesto di fare un intervento nelle sue classi su Cittadinanza e costituzione. Per il resto i mesi sono passati così, parcheggiato in sala professori, a leggere e tentare di trovare un senso al mio “pseudo-lavoro” di tappabuchi ».

Perché aveva chiesto il trasferimento?

«Dopo anni in un liceo scientifico a Biella, volevo mettermi alla prova in un contesto diverso: una grande città multietnica come Torino mi sembrava perfetta. Non ho chiesto io l’Alfieri, né il potenziamento. Il ministero mi ha solo assegnato una scuola della zona che avevo richiesto».

Ha provato a cambiare le cose?

«Ho proposto più volte progetti di potenziamento di cui mi sarei potuto occupare: proposte tutte respinte perché irrealizzabili. Il preside si è dispiaciuto, ha incolpato la mancanza di spazi, l’impossibilità di sovraccaricare i ragazzi di impegni, e soprattutto gli uffici che hanno assegnato alle scuole docenti di materie non richieste e non funzionali agli obiettivi».

Come si sente adesso?

«Mi sento strano. A 42 anni, dopo 11 anni di servizio, tre abilitazioni e diversi master, sono qui e non sanno cosa farmi fare. È ingiusto verso chi fatica ogni giorno. Questo assistenzialismo è assurdo, tutto mi sembra assurdo, visto il bisogno di educazione che c’è in questo Paese. Ho scritto alla ministra dell’Istruzione, al presidente del Consiglio e al capo dello Stato. Ma mi sta passando anche la voglia di lamentarmi. Ogni mattina, allo specchio, mi chiedo a che servo. Che senso ha sperperare soldi in questo modo? Spero che qualcuno mi risponda, mi dica se è normale, se è un errore della scuola o della Regione in cui lavoro o se il problema è più generale. E soprattutto se potrò riavere il lavoro per cui ho studiato».

Cosa farà?

«Se posso me ne andrò, naturalmente, in una scuola dove poter dare un contributo attivo. Ma se non mi concederanno un nuovo trasferimento dovrò restare in questo limbo per sempre? Forse mi convincerò che il lavoro è solo lo stipendio. Mi abituerò a pensare alla scuola come un enorme ammortizzatore sociale, che mortifica le nostre competenze in cambio della sicurezza economica. Forse. Ma spero di no. Spero di non abituarmi».


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