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Due strade per giocare nel campionato della ricerca

Mentre  festeggiamo il decennale dell’Erc (il Consiglio Europeo della Ricerca), sentiamo suonare l’ennesimo campanello d’allarme per la ricerca italiana. Ma questa volta possiamo trarre indicazioni su come migliorare la nostra situazione.

17/03/2017
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la Repubblica

Giovanni Bignami

Mentre  festeggiamo il decennale dell’Erc (il Consiglio Europeo della Ricerca), sentiamo suonare l’ennesimo campanello d’allarme per la ricerca italiana. Ma questa volta possiamo trarre indicazioni su come migliorare la nostra situazione.

L’Erc è un brillante risultato dell’Unione Europea perché adopera una filosofia di lavoro poco europea, o meglio poco euroburocratica. Nato nel 2007, ha distribuito più di 12 miliardi di euro a circa settemila progetti e il suo segreto è il merito scientifico come unico criterio per finanziare. Senza regole che impongano un ritorno fisso per nazione e senza influenze politiche, l’Erc usa meno del 20 percento degli investimenti della Ue in ricerca e controlla solo l’1 percento dei fondi di tutta l’Europa (Ue più le nazioni), ma ci ha dato un’eccellenza riconosciuta in tutto il mondo.

Finanziare la ricerca fondamentale, che non dà risultati domani ma che rende tutti meno ignoranti, sulla base della qualità, facendo decidere a 22 scienziati, che scrivono i bandi e chiamano gli esperti per i giudizi tecnici, è l’elemento del successo. Ottenuto con poco: la maggioranza dei soldi Ue è per la ricerca applicata con il famoso programma Horizon 2020.

Sulla scala di dieci anni si possono trarre conclusioni sui singoli Paesi. L’Italia è messa molto male nella graduatoria dei finanziamenti “portati a casa” rispetto alle sue dimensioni (numero di abitanti) e quindi rispetto ai soldi versati. Siamo a meno della metà di quello che ci toccherebbe. Otteniamo, per abitante, la metà dei finanziamenti di Francia e Germania e un terzo della solita, bravissima Inghilterra. Nella classifica sul numero di grant (borse di studio) per abitante, appena pubblicata da Science, veniamo prima di Ungheria e Grecia, ma dopo il Portogallo. Per di più, “portare a casa”, per i ricercatori italiani, individualmente bravi come o meglio degli altri, vuole spesso dire prendersi il grant (assegnato alla persona) ed andare a lavorare fuori Italia, in nazioni con una vera cultura della ricerca. Non biasimiamo le eccellenze se prendono i soldi e scappano, ma il Paese ne risulta ulteriormente impoverito. Con ammirazione per i vincitori italiani, come individui e come istituzioni, i dati Erc mettono a nudo evidenti, enormi problemi a livello nazionale. Il primo è il numero di ricercatori. In Italia, stando larghi, cioè per esempio contando tutti i professori universitari, arriviamo a 164 mila. Nel Regno Unito (stesso numero di abitanti dell’Italia) sono quasi il triplo: 442 mila, più o meno come gli altri big, ma perfino la Spagna ne ha molti più di noi.

È chiaro che l’Italia versa all’Erc il suo contributo, basato sulle sue dimensioni nazionali, ma poi non si dà gli strumenti, cioè i ricercatori, sufficienti per portare a casa la sua parte. Quelli che ci sono (meno della metà del dovuto) fanno prodigi di valore, ma giocano in cinque contro undici.

Oltretutto, pur riconosciuti a livello internazionale per la qualità della loro ricerca, i nostri ricercatori sono poco allenati per la Coppa Europa. Una sciagurata scelta sul Piano Nazionale della Ricerca (approvato in tutta fretta dopo ritardi di diversi anni) prevede solo ricerca applicata, scimmiottando paro paro il programma Horizon 2020. Zero matematica, per esempio, e zero ricerca fondamentale nel Pnr italiano. Non così nel resto dell’Europa che conta, dove si lasciano le applicazioni a H2020 e in casa si finanziano robustamente i fondamentali, allenandosi alla competizione europea.

Abbiamo quindi due strade (ma nessuna scorciatoia) per migliorare e non regalare agli altri i nostri soldi: aumentare i giocatori ed allenarli meglio. La prima è semplice, ma non a costo zero: finanziare subito nuovi reclutamenti, cioè aumentare il capitale umano come suggerisce anche Mario Draghi. Ci vorrà tempo: prima di arrivare in nazionale, si comincia dai pulcini. Ma abbiamo il paradossale vantaggio di un mare di precari, già allenati e costretti al peso forma...

La seconda strada invece non costa niente. Sfruttando la competenza della comunità, aggiorniamo il nostro Pnr, dando un supporto concreto alla ricerca fondamentale, quella oggi assente. Basta includere gli stessi argomenti dell’Erc e — miracolo! — tra dieci anni i nostri, ben allenati e ad armi pari, avranno sbancato l’Europa, con la fame che hanno accumulato finora.