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Disobbedienza o resa?

Parlamento e governo, in questi ultimi mesi, hanno dato altri due sonori ceffoni a coloro che ancora si attardano – con patetica ostinazione – a difendere l’idea che la trasmissione del sapere è importante quanto la sua produzione e dovrebbe dunque essere adeguatamente valorizzata e incentivata

20/10/2014
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ROARS

Stefano Semplici

La distruzione della didattica come “missione” irrinunciabile dell’università e la persecuzione burocratica sono diventati da tempo un obiettivo e un metodo apparentemente irrinunciabili per le politiche della valutazione e del merito. Parlamento e governo, in questi ultimi mesi, hanno dato altri due sonori ceffoni a coloro che ancora si attardano – con patetica ostinazione – a difendere l’idea che la trasmissione del sapere è importante quanto la sua produzione e dovrebbe dunque essere adeguatamente valorizzata e incentivata.

All’inizio di agosto, in occasione della conversione in legge del decreto 24 giugno 2014, n. 90, deputati e senatori hanno votato senza fiatare un emendamento con il quale si ribadiva che «la qualità della produzione scientifica dei professori reclutati dagli atenei all’esito dell’abilitazione scientifica nazionale è considerata prioritaria nell’ambito della valutazione delle politiche di reclutamento». Si lascia così implicitamente al buon cuore di questi professori la qualità del servizio garantito ai loro studenti, a partire dal tempo dedicato a lezioni, ricevimento, tesi. E non si offrono certamente ai Rettori solide ragioni per considerare prioritaria la lotta alla sistematica sottovalutazione dei doveri appunto didattici dei docenti. Un articolo pubblicato su una rivista con un impact factor elevato aiuta a risolvere ogni problema…

Lo Schema del decreto di riparto del Fondo di Finanziamento Ordinario per l’anno 2014 ha confermato, dal punto di vista di questa scelta che ben può dirsi strategica, la granitica coerenza dell’azione di questo governo rispetto a quelli che lo hanno preceduto. La «quota premiale» sale al 18 per cento del totale delle risorse disponibili e viene assegnata secondo queste percentuali: a) il 70 per cento in base ai risultati conseguiti nella Valutazione della qualità della ricerca (VQR 2004-2010); b) il 20 per cento in base alla Valutazione delle politiche di reclutamento (cioè, per quanto appena detto, in base ad un criterio sostanzialmente identico al primo); c) il 10 per cento in base ai risultati della didattica con specifico riferimento alla componente internazionale. Nella migliore delle ipotesi, dunque, questo è il rapporto che il governo riconosce fra il valore dell’insegnamento e quello della ricerca, assumendo peraltro, sulla base di argomenti che rimangono misteriosi e giusto per citare un paio di possibili esempi, che il numero dei corsi offerti in lingua inglese e quello degli studenti stranieri, quale che sia la loro provenienza, valgono come indicatore della qualità della didattica e ci rassicurano sul fatto che i professori vanno davvero in aula a fare lezione.

L’amore per la semplicità dell’ANVUR è un’altra certezza del sistema, che resiste ad ogni critica, proposta ed esercizio di buona volontà. Dai primi giorni di ottobre è disponibile la Nuova Versione delle Linee Guida per l’Accreditamento Periodico delle sedi e dei corsi di studio. Si tratta del documento che mi aveva dato l’ultima spinta ad urlare “ora basta!” insieme a Giovanni Salmeri. A quell’urlo si sono poi uniti altri colleghi, che come me speravano probabilmente in qualche novità. Un esempio aiuta a comprendere in che cosa si possa realmente sperare. La nuova versione del testo spiega così il contenuto del Requisito AQ 1, che garantisce che l’ateneo stabilisca, dichiari ed effettivamente persegua adeguate politiche volte a realizzare la propria visione della qualità della formazione: «Politiche e procedure rendono evidenti i ruoli, le responsabilità e le interazioni che si determinano tra Organi di Governo, CdS, Dipartimenti, Strutture di Raccordo o altre articolazioni interne dell’Ateneo, strutture tecniche di supporto, Presidio Qualità, Commissioni paritetiche docenti-studenti, Nucleo di valutazione. Tali elementi possono trovare formalizzazione, oltre che nello Statuto e nei regolamenti degli Atenei, in documenti di programmazione approvati dagli Organi di Governo e in delibere di Organi che, pur se non direttamente finalizzate alla programmazione, contengono indirizzi rilevanti a questo scopo». Avevamo proposto una radicale semplificazione dei requisiti di Assicurazione della Qualità, l’eliminazione dei Gruppi del Riesame e la fusione del Presidio di Qualità con il Nucleo di Valutazione di Ateneo, una decisa potatura della scheda SUA-CdS, l’obbligo di considerare i risultati e la qualità dell’attività didattica per l’attribuzione dei fondi premiali e/o di riequilibrio. Su quest’ultimo punto, il governo ha risposto con lo Schema del decreto di riparto del Fondo di Finanziamento Ordinario. Per quanto riguarda gli altri, portiamo a casa un significativo miglioramento delle Linea Guida dal punto di vista della leggibilità del testo. L’unico cambiamento, rispetto alla versione di aprile, riguarda le ultime righe, che suonavano così: «Tali elementi possono trovare formalizzazione, oltre che nello Statuto e nei regolamenti degli Atenei, nelle delibere degli Organi di Governo, nel Piano Strategico di Ateneo, nel documento di programmazione triennale, Linee guida, il documento “Politiche di Ateneo e Programmazione”». L’Accademia della Crusca ha forse motivo di rallegrarsi. Io non ci riesco proprio…

Che fare? Ieri ho letto che sono ormai più di sedicimila i colleghi pronti ad una azione di protesta di massa per superare il blocco degli scatti di anzianità, con azioni che comprometterebbero seriamente non solo la prossima VQR ma anche l’attività didattica dei nostri atenei. Non sono sicuro che troveranno il sostegno dell’opinione pubblica, ma dimostrano che i professori universitari sono capaci di mobilitarsi per le cose che considerano importanti (e questa – a scanso di equivoci – lo è certamente, anche se non condivido il modo in cui l’iniziativa viene presentata). Questa mobilitazione, purtroppo, non si ottiene per difendere “a costo zero” l’importanza dell’insegnamento e per curare il delirio burocratico che ci uccide con la terapia d’urto di una “disobbedienza civile” motivata e limitata nei contenuti: i Rettori non potrebbero che sanzionare il comportamento di singoli docenti o corsi di studio che si rifiutassero di compilare tutti gli assurdi campi di inutili questionari, dichiarazioni, moduli e schede, ma il sistema cambierebbe se lo facessero sedicimila professori, senza ridurre di una virgola il loro impegno per ciò che davvero serve a far crescere la qualità dell’offerta formativa. Durante l’incontro sulle criticità del sistema universitario promosso a Roma il 15 ottobre dall’Interconferenza Nazionale dei Dipartimenti-Coordinamento delle Conferenze di Direttori, Presidi e Responsabili di Strutture Universitarie, ho presentato questa proposta e uno dei colleghi presenti, Carlo Scoppola, mi ha poi inviato una sua riflessione, che, parlando della valutazione della ricerca, la anticipava quasi alla lettera: «È a questo punto che secondo me deve scattare una massiccia, condivisa, generalizzata obiezione di coscienza. Con lo scopo dichiarato di liberarci definitivamente di un mucchio di cretinate che ci fanno perdere un sacco di tempo. Anche a costo di buttare via qualcosa di buono, con l’acqua sporca: certamente essa non contiene bambini. La chiamerei una campagna per l’obiezione di scienza». Neppure l’ANVUR riuscirebbe ad ottenere la chiusura di intere università, che dimostrerebbero peraltro, appunto con la loro disobbedienza, di lavorare meglio. E forse sarebbe più facile anche chiedere che il blocco degli stipendi venga superato, perché è ingiusto e i docenti universitari non lo meritano più di altri servitori dello Stato.

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Quante possibilità ci sono che ciò accada? La stragrande maggioranza dei professori (e soprattutto dei professori ordinari) assiste indifferente alla distruzione dell’università e sembra che non ci sia modo di scuoterla dal suo torpore. I pochi che provano ad opporsi potrebbero stancarsi, perché la protesta inutile, a lungo andare, non può che sfociare nella resa. Vincerebbe in questo modo chi pensa che l’Italia non ha bisogno di una buona università, oltre che di una buona scuola. Magari unendosi a chi è convinto che la buona università può essere solo per pochi e che si può “spendere meno e spendere meglio” orientando in questa direzione la doverosa applicazione del principio della qualità e del merito e lasciando ai molti una formazione povera di strumenti e contenuti. Io non mi arrendo a questa conclusione. E ringrazio l’amico che, dopo aver letto questo articolo, mi ha esortato a ricordare che la battaglia non è ancora perduta e che noi lotteremo comunque fino alla fine. E anche dopo


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