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da Edscuola-Il documento "Bertagna": tra utopia (poca) e rassegnazione (molta)

Il documento "Bertagna": tra utopia (poca) e rassegnazione (molta) di Giancarlo Cerini 1. Il modello istituzionale Leggendo il documento "Bertagna", dal nome del coordinatore della Co...

18/12/2001
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Edscuola

Il documento "Bertagna": tra utopia (poca) e rassegnazione (molta)

di Giancarlo Cerini

1. Il modello istituzionale

Leggendo il documento "Bertagna", dal nome del coordinatore della Commissione di studi incaricata dal Ministro Moratti di elaborare un'ipotesi di riforma da sottoporre agli Stati generali della scuola (Foligno, 19-20 dicembre 2001), si ha quasi l'impressione che al centro del disegno di riforma ci sia unicamente lo scontro tra due ipotesi di ordinamento (il modulo 8+4 che si contrappone al precedente modulo 7+5, scaturito dalla Legge 30/2000), indipendentemente da una riflessione approfondita sulla diversa idea di scuola, di cultura, di educazione e, in definitiva, di società, che potrebbe essere sottesa all'una o all'altra scelta di ingegneria dell'ordinamento.

Sotto accusa è finito apparentemente solo il piano di attuazione della vigente legge sui cicli (soprattutto la famigerata "onda anomala"), ma poi si deve prendere atto di una pervicace volontà della Commissione di prendere le distanze dal precedente modello, di cui non si analizzano con serenità le motivazioni di fondo (ad esempio, perché si fosse ipotizzato di ridurre la durata della scuola di base da otto a sette anni). Si dimentica che l'onda anomala, visto che si intende comunque mantenere l'ipotesi di uscita dal sistema scolastico a 18 anni, si riprodurrà nel passaggio contemporaneo di due leve di età dall'ultimo anno delle superiori all'Università. E' pensabile che i disagi operativi provocati da una riduzione dell'istruzione secondaria a soli 4 anni siano assai minori di quelli prospettati con il compattamento della scuola di base a 7 anni: ma il ruolo della scuola e della formazione nella società della conoscenza non si misura certamente con la sola durata dei diversi segmenti scolastici (naturalmente questo principio vale per i sostenitori di entrambe le ipotesi).

L'enfasi su un diverso modello di ingegneria contraddice l'ipotesi (questa sì, europea) che le migliori riforme siano rappresentate non tanto dai grandi disegni ordinamentali, ma dalla capacità di assecondare e sostenere concretamente i processi di miglioramento già in atto all'interno delle scuole, nelle classi, tra gli insegnanti. Invece, nel documento non si compie un'analisi approfondita di quanto avvenuto nella scuola italiana negli ultimi trent'anni (si pensi alle profonde innovazioni nella scuola elementare), anzi traspare una sorta di "rivalsa", quasi ad azzerare la maggior parte dei processi innovativi realizzati più di recente (e considerati frutto di politiche consociative e prettamente sindacali). Per fare qualche esempio, si tace quasi completamente su:

gli Orientamenti del 1991 nella scuola dell'infanzia (e ancor di più sui più recenti programmi sperimentali Ascanio ed Alice);
l'ampio successo degli istituti comprensivi (pari al 43 % dell'insieme delle scuole elementari e medie) che pure testimonia del peso della variabile territoriale nel suggerire l'ipotesi di una scuola di base;
il variegato panorama delle istituzioni scolastiche sperimentali della scuola secondaria superiore (con un significativo gruppo di istituti impegnati '#8211;da alcuni anni- nei progetti di bienni e trienni, orientati verso l'autonomia curricolare).
Questo silenzio è il medesimo che si riscontra nei confronti delle concrete scelte di gestione della scuola, per le quali si è assistito '#8211;negli ultimi mesi- ad un sostanziale blocco di ipotesi di innovazione largamente condivise (ad esempio, il piano di sperimentazione di nuovi modelli organizzativi nella scuola dell'infanzia, già richiesti da centinaia di scuole prima dell'estate 2001, o la diversa modulazione degli orari della scuola secondaria, per assestarli verso le 30-32 ore settimanali), per non parlare della sospensione dei processi di elaborazione dei nuovi indirizzi curricolari nazionali (operazione indispensabile per riorientare l'autonomia verso una dimensione non solo integrativa e aggiuntiva).

Di fronte a questa divaricazione, tra "discorsi alti" e "minimalismi quotidiani", molti insegnanti si sono chiesti se valesse proprio la pena di avviare, su basi così fragili, una nuova operazione di "riforma", tra l'altro con tempi così ristretti e modalità così mass-mediatiche, da far rimpiangere le consultazioni dell'epoca berlingueriana (anch'esse '#8211;per altro- assai affannate).

2. Il modello sociale

Ma sono le conseguenze sociali del modello educativo proposto (con una netta divaricazione dei percorsi formativi a 14 anni, di tipo "qualitativo") a destare le maggiori preoccupazioni. Aleggia, magari al di là delle stesse intenzioni degli estensori, l'idea di una scuola "funzionalista" che deve collocare nella società a diversi livelli di responsabilità (con o senza compiti dirigenziali, si esplicita con molta ingenuità a proposito dei corsi di istruzione superiore, di minor pregio rispetto ai paralleli corsi universitari). La collocazione avverrà certamente secondo i meriti (e tra di essi "spicca" anche la "buona" condotta dell'allievo), ma ci si dimentica che senza un consapevole intervento educativo i meriti sono spesso frutto di contesti sociali e culturali di per sè avvantaggiati. Già oggi, ci ricordano le ricerche del Censis, il successo scolastico si "tramanda" da una generazione all'altra della stessa famiglia. Allora, perché accentuare questo "familismo" individualista, questo rapporto "personalizzato" con l'istituzione scolastica, quasi un "fai da te" che finisce per avvantaggiare i ceti sociali più avvertiti ?

Dove sta, in questo approccio "liberista" la legittimità di un riferimento al pensiero di Don Milani, che pure campeggia in qualche pagina del documento ?

Insomma, molti commentatori hanno interpretato diversi passaggi del documento, nei quali la proposta culturale intenzionale della scuola diventa una "libera offerta" ai genitori (come nel caso della scuola dell'infanzia), come una rinuncia ad un ruolo più incisivo delle istituzioni scolastiche pubbliche.

Non emerge l'idea-guida di una scolarizzazione "estesa" come sfida culturale, difficile ma affascinante; della scuola come luogo dell'incontro con la cultura che si fa stimolo dell'intelligenza e della conoscenza, fonte degli indispensabili "saperi di cittadinanza e responsabilità". E' emblematico che perfino la Confindustria abbia messo in guardia circa l'impoverimento della proposta formativa della scuola, perché una precoce canalizzazione dei percorsi formativi (anticipata a 14 anni come in nessun altro paese europeo) potrebbe ridurre la forza formativa dell'istruzione (mentre il mondo delle imprese richiede lavoratori a più alto tasso di intelligenza creativa e di intraprendenza cognitiva) e confermare la tradizionale marginalità del canale "professionale", indebitamente riservato alla parte più debole della popolazione.

La differenziazione dei percorsi, che era già emersa anche nel primo modello di riforma dei cicli proposto dal Ministro Berlinguer (con lo schema 6+6 una prima scelta veniva compiuta a 12 anni), ci era stato rimproverato dall'OCSE nel suo rapporto 1998 di "check-up" della riforma scolastica italiana. Ma in quelle proposte, la precocità delle scelte (a 12 anni nel progetto iniziale, a 13 anni nella legge 30/2000) veniva poi "compensata" dall'estensione dell'obbligo scolastico fino a 15 anni (rispettivamente con un triennio o un biennio di scolarità secondaria obbligatoria per tutti).

Nel documento Bertagna l'obbligo scolastico è invece declassato a ferrovecchio di fine ottocento (meraviglia la dimenticanza di un richiamo alla Legge 9/99, che aveva elevato a 10 anni l'obbligo scolastico '#8211;e solo in via provvisoria esteso a 9 anni). E' vero che nella proposta odierna si riconferma l'obbligo formativo fino ai 18 anni, ma questa soluzione, nel nostro paese, è ancora assai gracile, perché soggetta a troppi elementi aleatori (insensibilità civile e culturale, difficoltà economiche, mancanza di strutture adeguate, debolezza del canale formativo non scolastico). Inoltre, nel documento resta l'ambiguità del rapporto tra dimensioni dell'istruzione "disinteressata", della formazione professionale, dell'apprendistato lavorativo (che rappresentano tre "fasi" ben distinte, necessarie ed in sequenza di un percorso verso l'adultità ed invece sono considerati quasi "momenti" intercambiabili e fungibili).

3. Il modello pedagogico

Nel nuovo progetto si conferma (e come altrimenti !) l'obiettivo di elevare il profilo culturale della popolazione italiana, ma le soluzioni adottate appaiono per lo meno "rischiose". La scelta tra istruzione liceale, istruzione tecnica, terzo canale in alternanza scuola-lavoro, avviene assai presto, a 14 anni, mentre in Europa si tende a procrastinarla verso i 16 anni (e nella legge 30/2000 viene comunque posto a 15 anni, dopo due anni di istruzione secondaria obbligatoria).

Riflettendo sulla situazione odierna non possiamo certamente essere soddisfatti di come si sta attuando il nuovo obbligo scolastico e formativo in Italia, ma questo ritorno ai 14 anni assomiglia troppo ad una rinuncia, al gettare la spugna di fronte alla complessità del problema. Se l'istruzione è un bene indispensabile per una piena cittadinanza, come renderla un bene fruibile a tutti i cittadini ? Dobbiamo forse prefigurare due (anzi tre) percorsi formativi nettamente differenziati (qualitativamente differenziati), perché diverse sono le intelligenze dei ragazzi (o comunque i loro stili di apprendimento ?).

C'è una punta di moralismo in quel soppesare minuziosamente (alla fine di ogni biennio) debiti e crediti, nel responsabilizzare "in toto" i ragazzi circa il loro apprendimento (sappiamo, invece, che è una conquista di lungo periodo e non solo il frutto di uno sforzo volontaristico), nel prefigurare diverse velocità nell'apprendimento e nel conseguimento dei risultati (ci sarà sempre qualcuno che è rimasto indietro, ma a cui viene offerta la possibilità di recuperare e di raggiungere "i traguardi più elevati" !).

Manca una esplicita descrizione di quell'"ambiente di apprendimento" che sa "adattarsi" alle diverse intelligenze dei ragazzi, che facilita la costruzione delle conoscenze, di cui pure si parla abbondantemente nei programmi didattici vigenti. Il recupero scolastico acquista il più accattivante logo di "laboratorio", ma la ripetenza torna inaspettatamente in auge, anche nelle prime classi della scuola elementare !

E' vero, si parla di valutazione formativa, ma il concetto è appena abbozzato (con le prove di ingresso ad anni alterni, in chiave diagnostica e prognostica) e rischia di essere sommerso da un'invasione di prove strutturate e standardizzate (fin dalla prima classe elementare), che mal si adattano ad una lettura "contestualizzata" delle competenze degli allievi.

4. Il modello culturale

La proposta complessiva si vuole accreditare come tentativo di ridare dignità al percorso formativo "professionale" di cui si lamenta la sottovalutazione tutta italiana (in effetti, la percentuale degli allievi che frequenta percorsi di istruzione tecnica e professionale è tra i più bassi d'Europa). Così come è assai labile '#8211;nel nostro paese- il rapporto tra cultura scolastica e cultura del lavoro (anche in questo caso è debolissima la percentuale di allievi italiani delle scuole secondarie impegnati in scambi, stage, esperienze di alternanza scuola-lavoro rispetto ai colleghi europei).

Un riequilibrio tra le diverse filiere di istruzione si rende necessario. Ma qual è la soluzione proposta ? Apparentemente si introduce una precoce canalizzazione tra diversi percorsi formativi a 14 anni (istruzione liceale, istruzione tecnico-professionale, formazione in alternanza). E' previsto un meccanismo di integrazione tra i diversi itinerari, con possibilità di rientrare e reinserirsi nei canali di maggior pregio (dedicando più tempo alla propria formazione e sottoponendosi ad accertamenti delle competenze diversamente acquisite), ma ciò che colpisce è la pervicace volontà di anticipare la scelta dei percorsi a 14 anni, e la distinzione "valoriale" tra i diversi filoni '#8211; quelli "disinteressati" e quelli "professionali". E poi, perché denominare "licei" solo alcuni indirizzi e ricondurre i rimanenti alla dimensione di "istituti" ? E' vero che il problema è quello di un pieno recupero della dimensione tecnico-professionale ad un significato e ad una dignità culturali; questo è appunto il problema che si affronta in tutta Europa, spesso con maggiore coraggio. Ad esempio, in Francia abbiamo una filiera di "licei" linguistici, sociali, "disinteressati", ma anche tecnici, professionali (assai collaudati) ed, oggi, persino "dei mestieri" (con una forzatura voluta per rimarcarne la dignità). In Germania, la patria del sistema "duale" che ora si vorrebbe prendere ad esempio da noi, si sta decisamente ripensando al modello, per introdurre più forti elementi di cultura generale. La Spagna riconferma la sua scelta di un obbligo scolastico fino a 16 anni (e gli output del suo sistema formativo sono ora più avanzati dei nostri).

Non è pensabile "forzare" il riequilibrio tra le diverse filiere scolastiche (opzione in sé accettabile), con una operazione che fatalmente sarebbe percepita come la gerarchizzazione dei destini sociali degli individui.

Al di là della affermazione di pari valore e di aperta integrazione dei due canali, liceale e tecnico-professionale, emerge infatti una forte separatezza tra la cultura cosiddetta disinteressata e quella orientata al lavoro, quasi due mondi non comunicanti, mentre oggi assistiamo, nella società della conoscenza e della comunicazione, ad una forte integrazione di saperi, di linguaggi, di forme di apprendimento, di tecnologie, fino a stemperare i tradizionali steccati tra le due culture (o quanto meno a superare la divaricazione tra l'apprendere in modo esperienziale o in modo simbolico-ricostruttivo.

5. Il modello curricolare

Il documento, curiosamente, tace di curricolo ed introduce il concetto di "piani di studio". E' solo il gusto per le puntualizzazioni linguistiche ? Analogamente, il riposizionamento di concetti quali finalità generali, obiettivi specifici di apprendimento, obiettivi formativi, competenze degli allievi, è il tentativo di dare corso a quanto previsto dall'art. 8 del Regolamento per l'autonomia organizzativa e didattica o, piuttosto, esprime l'incertezza circa le scelte curricolari da compiere ? E che ne è delle proposte di nuovi indirizzi curricolari per la scuola di base, elaborati dalla Commissione De Mauro nella primavera del 2001 ? La critica che si compie è del tutto superficiale.

Il punto forte è il concetto di curricolo essenziale, tanto è vero che viene prefigurato un curricolo obbligatorio di sole 25 ore settimanali (riservato alle discipline fondamentali e irrinunciabili) cui si aggiungono non meglio precisate attività di carattere facoltativo ed integrativo, offerte obbligatoriamente dalla scuola ma lasciate alla libera fruizione degli utenti.

La ricerca del "core curriculum" ha affaticato in questi anni molte commissioni di saggi (a partire dal documento sui "saperi essenziali" della Commissione Maragliano) alle prese con una invincibile resistenza di tutte le rappresentanze dei saperi accademici disciplinari.

La proposta di un curricolo "sobrio" è legittima, ma la scelta di rimettere alle libere scelte di genitori ed allievi (anche con il ricorso ad esperienze fuori-scuola e private) una parte consistente della proposta formativa curricolare può aprire la strada al depauperamento del servizio scolastico in favore del più agguerrito mondo delle agenzie formative esterne.

Inoltre, quale idea di contesto di apprendimento emergerà, distinguendo nettamente l'area curricolare "forte" dall'insieme delle esperienze di relazione, di laboratorio, di operatività, di espressività, che oggi vengono rimesse alle libere scelte degli utenti.

L'idea (non troppo) sottesa è che gli insegnanti siano troppi, che l'offerta educativa sia eccessivamente dilatata per problemi di occupazione del personale (si veda il giudizio negativo verso la riforma della scuola elementare del 1990, nei confronti della quale oggi si compie quasi una "vendetta", con il ripristino della figura unica di docente, praticamente fino alla quarta classe elementare). Altro discorso sarebbe stato ritornare con serenità sulla riforma della scuola elementare, per verificarne pregi e limiti, invitando gli insegnanti (comunque nell'ambito della loro autonomia professionale) a forme di organizzazione del team docente più equilibrate e coerenti.

Posto poi che si contengano gli effetti di "randomizzazione" del curricolo (un insieme composito di "tessere" a malapena ricucito dal port-folio valutativo dell'allievo) chi garantirà la qualità educativa delle proposte del fuori-scuola ? Nell'area extrascolastica possiamo trovare opportunità assai diverse: dalla rete di solidarietà del terzo settore alla presenza "pubblica" degli enti locali, all'aggressività del mercato. Chi aiuterà famiglie e ragazzi a scegliere ? E la proposta della scuola non rischia di essere residuale e comunque fatalmente destinata a quella parte di popolazione (o di comunità locali) non in grado di scegliere (o di fruire di) altre offerte ?

C'è il rischio, al di là della motivazione di "libertà" che sta alla base dell'ipotesi di lavoro, si proceda ad un forte ridimensionamento dell'intervento pubblico, ad una vera e propria dismissione del ruolo dello Stato e delle pubbliche istituzioni (senza considerare gli accenni ad una vera e propria "pay-school" che appare qua e là in molte pagine del documento).

Lo Stato è visto quasi sempre nella sua forza di intrusione, di monopolio, di invasione di privacy, mai in quella di promozione dei livelli minimi di fruizione di servizi pubblici o, ancora di più, di garanzia di esplicazione di un diritto costituzionalmente tutelato (il diritto allo studio). Insomma, le differenze saranno ben fotografate (forse minuziosamente misurate), ma come si interverrà nei loro confronti?

6. Il modello professionale

Che un intero capitolo del documento sia dedicato alla formazione dei futuri insegnanti pare un buon segno (ed anche la proposta appare ispirata a criteri di saggezza, nel prevedere un percorso "lungo" di formazione, per tutte le tipologie di docenti). Certo, fa capolino la "lobby" dei pedagogisti (la maggioranza della commissione), piuttosto attenta alla difesa degli spazi accademici (ma altrettanto si poteva osservare a proposito delle precedenti proposte, piuttosto attente a preservare gli spazi accademici dei disciplinaristi).

Non è sempre esplicito il rapporto tra saperi disciplinari e saperi professionali, mentre tutta da approfondire è la distinzione tra cultura, tecniche e pratiche.

Vien poi da chiedersi se mani diverse non abbiano steso diverse parti della proposta, perché a fronte di una asserita pari dignità professionale dei docenti di ogni livello scolastico (presente nel paragrafo sulla formazione iniziale degli insegnanti), stanno altri passaggi ove emerge una netta gerarchizzazione, fin nell'uso dei termini, tra maestri e professori, tra insegnanti di classe e "maestri di sostegno". Così pure, il ritorno prepotente ad un maestro unico "tuttofare" '#8211;alle prese con un insegnamento definito sempre come "frontale"- finisce con l'impoverire il profilo professionale del docente di scuola elementare, così come si stava prefigurando dopo un decennio di faticosa (e ancora incompiuta) riforma.

Anche il tema della formazione continua (o in servizio) degli insegnanti appare assai eluso, affidando tutte le opportunità al solo sistema universitario (tornano le lobby ?) e costruendo un sistema di crediti formativi universitari (a varia intensità e consistenza, a seconda delle qualifiche che si intendono conseguire) che appare, nuovamente spostato su "meriti e demeriti". Ora, non si vuole certo difendere l'attuale inconsistente ricaduta della formazione in servizio ai fini della carriera, tuttavia giocare tutto il miglioramento professionale in termini di incentivazione, potrebbe produrre effetti distorsivi (una nuova corsa al "gradone", piuttosto che un effettivo processo di piena crescita culturale e di accreditata visibilità sociale).

Infine, non potrà essere la sola Università a rilasciare "patentini" e "qualifiche" per dinamicizzare la professione. Occorre riconoscere la scuola come sede di ricerca e di formazione: anzi, il miglioramento continuo, l'apprendimento professionale, non potranno prescindere dai concreti luoghi in cui si esplica la professione. Anche questa è la strada per ridare un "senso" all'autonomia di ricerca e curricolare prevista dalle norme più recenti.

Dopo Foligno

L'istruzione ed il sistema scolastico, anche dopo le devoluzioni contenute nella Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 (che introducono un insidioso concetto di "legislazione concorrente" delle Regioni nel campo dell'istruzione, fatte salve le "norme generali") sono uno dei beni costituzionalmente tutelati a vantaggio dell'intera comunità nazionale. Le riforme in cantiere (quelle già realizzate, quelle preannunciate) devono saper interpretare questo principio "super partes": è necessario che i documenti, i sondaggi, le consultazioni siano utilizzati avendo in animo questa finalità "bipartisan". E' con questo spirito che la ricerca dei punti di intesa dovrà diventare più stringente, con una maggiore capacità di ascolto del mondo della scuola e del suo "sapere", rifuggendo dalle troppo facili scorciatoie degli eventi mass-mediatici e dei sondaggi d'opinione.


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