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Covid-19, con la chiusura delle scuole tutti risultano perdenti

Articolo di Francesco Sinopoli su italianieuropei.it

17/07/2020
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Da italianieuropei.it

di Francesco Sinopoli

La misura di quanto è accaduto e ancora accade nel mondo per ef­fetto della pandemia da Covid-19 è contenuta nei dati che quoti­dianamente la Johns Hopkins University rende noti. Mentre scrivo, la dimensione mondiale della pandemia nei primi mesi di questo tragico 2020 è giunta a oltre 10 milioni di contagi e a più di mezzo milione di decessi, con un tasso di guariti comunque elevato: 4,4 milioni di persone che hanno attraversato l’epidemia uscendone in­denni. In Italia, i numeri che ci vengono consegnati dalla Protezione civile ci dicono che sono circa 240.000 i contagiati, e circa 35.000 i decessi, mentre coloro che sono guariti si attestano sui 180.000. Ciò che emerge in questo quadro globale è il fatto che l’epidemia da Co­vid-19 ha colpito in gran parte Stati Uniti (2,7 milioni di contagi, e oltre 130.000 decessi), il Brasile (1,4 milioni di contagi, e 50.000 de­cessi), la Russia (650.000 contagi) e la Gran Bretagna (320.000 con­tagi ma 44.000 decessi). Gli esperti ritengono che l’epidemia sia stata contenuta molto meglio laddove si è proceduto a chiudere scuole e università, e in generale la vita sociale, altrimenti quei dati sarebbero stati molto più catastrofici e avrebbero potuto uguagliare l’epidemia di Spagnola nel corso degli anni Venti del secolo scorso. Dove l’epi­demia è stata sottovalutata, oppure dove si è pensato di raggiungere una sorta di “immunità di gregge”, le cose sono andate malissimo. Negli Stati Uniti e in Brasile (guidate da gente come Trump e Bolso­naro), dove non si è proceduto a una chiusura rigorosa, la diffusione del Covid-19 continua drammaticamente a imperversare, e a pro­curare enormi timori sul piano planetario. Al contrario, il lockdown, la chiusura, è stato una misura dura e sofferta, ma ha salvato mol­tissime vite secondo una ricerca apparsa su “Nature”, realizzata dai ricercatori dell’Imperial College di Londra. I blocchi su larga scala e gli altri interventi che hanno limitato la circolazione delle persone in questi mesi sarebbero stati un’arma importante per l’Europa nel ridurre la trasmissione del Covid-19 e dare una stretta all’epidemia. Per un totale di 3,1 milioni di morti evitate, secondo lo studio. Una stima che si basa sui dati di 11 paesi, tra cui l’Italia, registrati fino all’inizio di maggio. Dalla chiusura delle scuole fino all’istituzione di “zone rosse”, dal 2 al 29 marzo, le misure non farmacologiche si sono susseguite in tutti i territori, anche se in modalità diverse. Per l’Italia, i ricercatori hanno calcolato che senza il lockdown si sarebbe giunti a 600.000 decessi e a oltre 150.000 persone ricoverate in terapia inten­siva. Insomma, aver chiuso per un certo periodo scuole e università, trattenendo nel mondo 1 miliardo e 600.000 di studenti in casa, e in Italia circa di 9 milioni e mezzo di studenti, ha contribuito a conte­nere l’epidemia, a evitare una diffusione assai più grave con relativo collasso delle strutture sanitarie. È da questo contesto, dunque, che devono avere origine le riflessioni sull’insegnamento a casa, o, come viene definita malamente, sulla cosiddetta didattica a distanza. Se non si coglie la portata planetaria dell’emergenza Covid non si coglie ciò che è accaduto nelle scuole e nelle università di tutto il mondo. Una rivoluzione? Può darsi. Alcuni studiosi lo ritengono. Un muta­mento di paradigma pedagogico? Forse. Ma di certo non è tutto oro quel che luccica nell’insegnamento a casa, o a distanza. Cercherò qui di dimostrarlo, evidenziando i tanti limiti e i pochi pregi di questa tecnica d’insegnamento.

DALLA TECNOPOLITICA ALLA TECNODIDATTICA

Dal 4 marzo le attività didattiche in presenza sono state sospese in tutte le scuole di ogni ordine e grado, nell’università e nell’AFAM, l’Alta formazione artistica, musicale e coreutica. In alcune Regioni il blocco è avvenuto fin dal 23 febbraio. Senza soluzioni di conti­nuità l’attività in presenza è stata sostituita, laddove possibile, dalla cosiddetta didattica a distanza. È stato coniato persino un ulteriore acronimo, DAD, come se non bastassero quelli che avevamo.

Intanto una prima questione lessicale: nelle lingue più diffuse nel mondo troviamo due costanti che nel linguaggio italiano sono andate perdute. Quello che è accaduto a causa della chiusura delle scuole e delle università, in una condizione comune di emergenza, è stato definito in inglese come home learning, in francese come apprentissage au domicile, in tedesco come Lernen zur Hause e in spagnolo apren­dizaje desde casa. Come si evince, le costanti sono educazione (o ap­prendimento o insegnamento) da un lato, ma soprattutto, dall’altro lato, il termine “casa”. Si tratta di termini estremamente evocativi e “onesti” che nella nostra consuetudine, sbagliata, di “didattica a di­stanza” sono andati perduti. Quanto più è efficace ed emotivamente “calda” la scelta di centrare su “apprendimento” e “casa” il nuovo mo­dulo degli studi, tanto più è “fredda, asettica e distaccata” (e priva di significato autentico) la nostra scelta lessicale di “didattica a distan­za”. Intanto perché non si è trattato di vera e propria didattica, ma soprattutto perché “distanza” indica già un pre-giudizio, un distacco spaziale, una concettualizzazione errata di una condizione umana dell’apprendimento, e la legittima. Se avessimo scelto anche noi di usare “insegnamento” o “apprendimento” da casa, come ovunque nel mondo, si sarebbero creati meno equivoci e molte polemiche, spes­so inutili, si sarebbero evitate. Bastano poche righe tratte dall’Enci­clopedia Treccani per capire di cosa parliamo quando parliamo di didattica: «parte della teoria e dell’attività educativa che concerne i metodi d’insegnamento», dunque non l’insegnamento in sé, non l’apprendimento, ma ciò che li precede in chiave metodologica. Al­lora perché insistere su quel termine, entrato poi in modo acritico nell’uso comune?

Abbiamo comunque assistito ad uno sforzo senza precedenti da par­te dei lavoratori della scuola e dell’università, per tentare con tutti i mezzi possibili di mantenere vivo quel dialogo educativo e quelle consuetudini didattiche improvvisamente e drammaticamente inter­rotti dall’emergenza sanitaria e far proseguire il lavoro amministra­tivo con grande efficienza. Dobbiamo però preoccuparci prima di tutto di coloro che pur nel lavoro dei tanti hanno pagato più di tutti questa situazione drammatica. Soprattutto pensiamo ai bambini e alle bambine che hanno sofferto e stanno ancora in parte soffren­do molto più di tutti noi l’isolamento e che chiedono agli adulti il perché di quanto sta accadendo, senza riuscire ad avere risposte che siano convincenti o, perlomeno, rassicuranti. Per questi, nulla poteva e nulla può la didattica a distanza. Così come per coloro che vivo­no le tante disabilità e si trovano privi di un sostegno fondamentale quanto praticabile solo in presenza. Pensiamo ai figli delle famiglie che sono migrate da altri paesi e che nella scuola viva trovano una straordinaria opportunità quotidiana di integrazione.

LA DIDATTICA A DISTANZA E LA RETORICA DEL TUTTO BENE

Abbiamo usato parole chiare fin da subito riconoscendo e sostenen­do l’impegno dei tanti e il valore di questa attività ma denunciando subito i rischi a partire dalla nota che ne regolava lo svolgimento dopo i primi giorni di totale vuoto. La didattica a distanza ha rap­presentato l’unica modalità per mantenere viva la relazione educativa con gli alunni, ma l’orizzonte “culturale” che traspare nell’imposta­zione ministeriale è stato quello di una scuola esclusivamente dedi­ta alla trasmissione di saperi disciplinari e preoccupata di far rag­giungere per tempo le competenze previste dai “programmi”, poco attenta all’educare (relazionarsi agli altri) e al formarsi (relazionarsi con se stessi) e, soprattutto, poco attenta a ragazzi e ragazze che non accedono a queste modalità. Infatti sono oltre un milione e mezzo coloro che non hanno la disponibilità di una connessione, e spesso nelle famiglie numerose c’è un solo computer. Abbiamo più volte sottolineato come la formazione a distanza si riveli certo utile in alcu­ne situazioni (ad esempio lunghi ricoveri ospedalieri in isolamento), ma, se protratta, presenta dei rischi molto pericolosi, per l’idea di insegnamento che abbiamo (la relazione educativa, la collettività, le opportunità) che ci inducono a ritenere opportuno – al di fuori, sia chiaro, della fase attuale – limitarne l’utilizzo a una funzione comple­mentare, integrativa della didattica in presenza. Inoltre sulla didatti­ca a distanza ruotano interessi economici importanti contro i quali il ministero dell’Istruzione e dell’Università e ricerca non sembrano in grado di creare alcuna barriera.

In questa fase, insieme a un bilancio sulla didattica a distanza ci inte­ressa alimentare una riflessione collettiva su quello che sta accadendo non solo sulle buone pratiche e sui rischi oggettivi ma soprattutto sulla necessità di ripensare la didattica in presenza facendo di que­sta crisi il detonatore per rimettere al centro i contenuti dell’inse­gnamento e la missione costituzionale della scuola. Una riflessione anche sui nuovi strumenti e sul rapporto con la tecnologia che non è neutra per definizione e deve essere sempre ricondotta alla missio­ne istituzionale della scuola, alla sua natura collegiale e partecipata. Una riflessione sui tanti studenti che non hanno alle spalle famiglie per seguirli in questo home learning che non avremmo voluto e non vogliamo, nel quale si allargano le diseguaglianze e crescono i divari.

Possiamo però oggi fare qualche riflessione in più. Con la franchezza che ci contraddistingue, considerando che gli indici di contagio sono sotto controllo, almeno per ora, per cui siamo legittimati a interporre un minimo distanziamento mentale (non sociale, almeno non questa volta!), tra noi e la fase più acuta dell’emergenza, ebbene, ora possiamo e dobbiamo dire con fer­mezza che la didattica a distanza che si è sviluppa­ta in queste settimane in Italia non era forse l’u­nica soluzione possibile. Certamente non lo era tralasciando completamente la programmazione del rientro a scuola come nei fatti è avvenuto.

La didattica a distanza ha inoltre avuto l’effetto di cloroformizzare la gran parte dei problemi che stanno affrontando quotidianamente le scuole e i lavoratori che vi operano. La conseguenza di tutte queste scelte è stata inevitabile: la scuola, come pure gli altri settori della conoscenza, sono scivolati all’ultimo posto tra le emergenze e le preoccupazioni che il governo e le forze politiche hanno dovuto affrontare nella fase di massima espansione della pan­demia. Come è stato scritto di recente «la didattica a distanza è stato un modo di intubare la socialità educativa soffocata dalla pandemia». È un modo di dire che la vera comunità scolastica è quella che si svolge nei luoghi fisici delle aule dove l’interlocuzione, l’interruzio­ne, il dubbio, la domanda e l’errore sono esposte e messe in dialettica direttamente e senza mediazione. Occorre dunque uscire dall’intu­bamento che può aiutare in fase di crisi ma che non è vita, ma è solo mantenimento dell’esistenza in vita. Certo, i docenti avranno im­parato qualcosa di più nell’uso delle tecnologie. Ne faranno tesoro. Come fecero tesoro della lavagna e del gesso. Quando Nuccio Ordine chiede a Edgar Morin in una recente e bellissima intervista cosa pensi della didattica a distanza, il grande filosofo francese risponde con questa considerazione: «Grazie alla tecnologia si può riuscire a non spezzare il filo della comunicazione. Anche la televisione in Francia si è organizzata per offrire programmi agli studenti. Ma la questione, come tu ben sai, è di fondo: in diversi miei libri ho messo in evidenza i limiti del nostro sistema d’insegnamento. Trovo che non sia adatto alla complessità che viviamo sul piano personale, economico, sociale. Abbiamo un sapere spezzettato in compartimenti stagni, incapace di offrire prospettive unitarie della conoscenza, inadatto ad affrontare in maniera concreta i problemi del presente. I nostri studenti non sono educati a misurarsi con le grandi sfide esistenziali, né con la complessità e l’incertezza di una realtà in costante mutazione. Mi sembra importante prepararsi a capire le interconnessioni: come una crisi sanitaria possa provocare una crisi economica che, a sua volta, produce una crisi sociale e, infine, esistenziale».

Penso sia necessario ricordare che nessuna piattaforma digitale potrà cambiare la vita di un allievo. Conservare il contatto umano, diretto, tra docenti e discenti è fondamentale. Solo un professore che insegna con passione può influire sulla vita degli studenti. Insegnare è una missione, come quella dei medici: si tratta, in ogni caso, di occuparsi di vite umane, di persone, di futuri cittadini. Così come la tecno­politica, conseguenza diretta dell’antipolitica, aveva disincarnato la partecipazione popolare alla democrazia, rendendo perfino il voto alla stregua di un clic su una piattaforma, la tecnodidattica, se con­siderata una panacea, disincarna la relazione educativa, la spinge in una sorta di palude virtuale, esclude ogni riflessione sull’esperienza didattica, perché la didattica è innanzitutto esperienza di un vissuto,[1]non solo mera trasmissione di un sapere. Ecco perché dev’essere ne­cessariamente considerata come strumento emergenziale e del tutto transitorio, da controllare democraticamente, e non come elemento strutturale che rende concreto il sogno dell’inventore della tecno-politica. Di ciò occorre avere consapevolezza. Nell’epoca “gloriosa” della tecno-politica le cose si fanno perché un’autorità misteriosa e non riconosciuta democraticamente le ha imposte (basta un clic). E se qualcuno si chiede che senso abbia tutto ciò, il provvedimento di espulsione è già pronto. Sarà così anche per le sorti della tecno-didat­tica? In parte già lo è, e non solo per il numero enorme di coloro che ne sono fuori, per ragioni economiche.

IL DIVARIO DIGITALE

A proposito di divario digitale, i più recenti dati Istat, relativi al 2018-19, infatti, mostrano che il 33,8% delle famiglie non ha un computer o un tablet in casa, il 47,2% ne ha uno e il 18,6% ne ha due o più. La percentuale di chi non ne possiede almeno uno scende al 14,3% tra le famiglie con almeno un minorenne e al 7,7% tra quelle in cui almeno un componente è laureato; anche se il pc è presente, solo per il 22,2% delle famiglie è disponibile un compu­ter per ciascun componente; 850.000 ragazzi tra i 6 e i 17 anni (il 12,3%) non hanno un pc o un tablet a casa e di questi più della metà (470.000) risiedono nel Mezzogiorno; anche tra chi lo possiede, più della metà (57%) lo deve condividere con la famiglia e solo il 6,1% vive in famiglie dove ciascun componente ha a disposizione un pro­prio pc; sebbene solo il 4% dei 6-17enni vive in famiglie in cui non è disponibile l’accesso a internet, la disponibilità di connessione non è sempre funzionale alla didattica a distanza e va ad amplificare la carenza di device.

A complicare ulteriormente le cose intervengono gli spazi abitativi disponibili. Secondo i dati al 2018, il 41,9% dei minori vive in abita­zioni sovraffollate e non ha a disposizione uno spazio tranquillo dove connettersi e studiare. Una quota decisamente inferiore ma signifi­cativa, pari al 7% dei minori (e al 7,9% dei 18-24enni) vive in con­dizioni di grave deprivazione abitativa (problemi strutturali, senza bagno/doccia con acqua corrente, con problemi di luminosità). Un ultimo indicatore riguarda le effettive competenze digitali possedute dagli studenti italiani. La familiarità e l’uso intensivo che le giovani generazioni hanno con alcuni device, primo fra tutti lo smartphone, il loro essere “nativi digitali” ha diffuso nella pubblica opinione la facile idea che essi possano fronteggiare anche un uso del digitale più “esperto”, che vada al di là dell’utilizzo più diffuso, quello a scopo lu­dico e relazionale che passa attraverso la rete. In effetti, se è possibile affermare che quasi tutti i teenager (ma meno i bambini e i preadole­scenti) navigano su internet (nel 2019 il 92,2% dei 14-17enni), solo il 30,2% possiede alte competenze digitali, mentre circa il 60% si colloca su livelli bassi e il 3% non possiede alcuna competenza digita­le, un quadro che per di più si contraddistingue per usuale differenza territoriale a svantaggio del Mezzogiorno. Inoltre, a livello nazionale, si segnala, a fine aprile, una “dispersione” nell’insegnamento da casa del 21,9% (dati del ministero dell’Economia) con una quota di stu­denti non raggiunti pari a circa 1.600.000 tenuti fuori dalle lezioni. Ecco perché occorre insistere nel definire l’insegnamento a distanza solo come stratagemma emergenziale, e non strutturale, anche se esi­ste ed è ormai evidente una strategia economica che punta a rendere stabile l’uso dei dispositivi digitali. Una recente inchiesta del “Finan­cial Times” [2] ha rivelato che tra le prime cinque aziende ad aver tratto enormi benefici dalla pandemia vi sono le big che gestiscono, non a caso, le piattaforme: Amazon, Google, Apple e Zoom. Parliamo qui di mille miliardi di dollari in profitti in tre mesi. Questi profitti, in realtà, hanno accentuato le diseguaglianze già profonde che esistono sia a livello planetario, che a livello di singolo Stato. E c’è un legame tra sapere e profitto. Un legame messo in luce da Thomas Piketty nell’ultima fatica del 2019, “Capitale e ideologia”.

L’analisi di Piketty appare puntuale e rigorosa: «A partire dagli Ot­tanta-Novanta del Novecento, la crescita delle diseguaglianze so­cioeconomiche si registra in tutte le parti del mondo. In alcuni il fenomeno è diventato così evidente che ormai è sempre più difficile giustificarlo in termini di interesse generale. Si è aperto inoltre un po’ dappertutto un gigantesco abisso tra i proclami meritocratici ufficiali e i problemi che devono affrontare le classi più disagiate per accedere all’istruzione e alla sicurezza economica. La narrativa meritocratica e imprenditoriale sembra spesso un modo molto comodo, per i privile­giati del sistema economico attuale, di giustificare qualunque livello di diseguaglianza senza nemmeno doverlo analizzare, stigmatizzando allo stesso tempo chi soccombe per le sue mancanze: di merito, di capacità, di diligenza. Questa colpevolizzazione dei più poveri non esisteva, o almeno non era così esplicita, nei precedenti regimi basati sulla diseguaglianza, che sottolineavano invece la complementarietà funzionale dei diversi gruppi sociali. È stata la lotta per l’uguaglianza e per l’istruzione che ha permesso il progresso umano e lo sviluppo economico. La disuguaglianza non è tecnologica o economica: è ideolo­gica e politica».[3]

Piketty pertanto centra il problema, a tal punto che il suo interrogati­vo fondamentale appare ancora più attuale nei giorni della pandemia: «Siamo proprio sicuri che Bill Gates e gli altri tecnomiliardari – si chiede così Piketty – avrebbero potuto sviluppare le loro imprese sen­za le centinaia di miliardi di denaro pubblico investito nella forma­zione e nella ricerca di base per decine di anni? E pensiamo veramente che il loro potere di quasi monopolisti commerciali e la possibilità di brevettare privatamente il sapere pubblico avrebbe potuto affer­ marsi senza il supporto attivo del sistema legale e fiscale vigente?».[4 ]È da questo interrogativo fondamentale che occorrerebbe partire per rilanciare un dibattito pubblico più corretto sul senso e il destino dell’istruzione pubblica, soprattutto nei periodi di emergenza. Esa­miniamo i punti principali dell’esperienza dell’insegnamento “a di­stanza” per dimostrare la fondatezza dell’analisi di Piketty. Intanto, le lezioni sono tenute su piattaforme Google Meet, ma non vi è uno standard su come fare lezione. Ognuno ha libertà di usare i mezzi che preferisce, cosa che però, quando non si conoscono le piattaforme, può generare problemi. Comunque, i nostri docenti, in larghissima maggioranza, dopo qualche settimana hanno trovato il modo miglio­re per fare lezione, usando, ad esempio, una canvas Google come se fosse una lavagna. Trovato il modo migliore di mandare il messaggio, bisogna tuttavia vedere se dall’altra parte viene ricevuto correttamen­te. Gli studenti ovviamente possono approfittare della situazione per essere completamente assenti anche se tecnicamente collegati. Con telecamere e microfoni spenti, si ha l’impressione di parlare al mo­nitor e non a una vera classe. Si cercano allora continue risposte, si mandano dei cosiddetti “ping” per essere certi che dall’altra parte ci sia qualcuno che ascolta. Nella maggior parte dei casi la classe rispon­de, ma non sempre. Mancando un contatto diretto si fatica a capire se la spiegazione è stata adeguata o anche solo vagamente interessante.

Le forti diseguaglianze emerse nell’emergenza Covid-19 devono dunque essere superate, ma occorre farlo con razionalità e saggezza, non affidandoci alle tecniche, ma alla politica. Occorrerebbe agire esattamente in modo contrario a quanto si è fatto in Italia in periodo di pandemia, quando, anche a sinistra, si è stati convinti che bastasse un computer o una connessione in più per dare la possibilità a stu­denti e famiglie disagiati di essere più uguali. Questa convinzione era ed è talmente forte da giustificare poi la convinzione che “nessuno resta indietro”. Non è così. Il punto di fondo è che la chiusura delle scuole costituisce una potenziale minaccia allo sviluppo educativo di un’intera generazione di studenti. Tutti risultano perdenti in questa generazione, molto più degli altri. Ci sono state e ci sono differenze considerevoli nei livelli di impegno degli studenti nell’apprendimen­to a distanza, soprattutto tra i più svantaggiati, poiché vi è l’evidenza sempre più crescente, a livello scientifico, del rischio di un allarga­mento delle disparità come effetto della pandemia. Ne è la prova, ad esempio, una recentissima ricerca dello Svimez secondo la quale la devastante crisi economica, conseguenza diretta della chiusura delle attività, imporrà a oltre 30.000 ragazzi, oltre la metà dei quali residenti nel Mezzogiorno, la scelta di non iscriversi all’università, perdendo di vista presente e futuro. In questa situazio­ne il digital divide ha giocato il ruolo decisivo in significative disparità nello studio da casa. Per settimane, sindacati e associazioni come Save the Children hanno lanciato l’allarme, inascolta­ti: i più poveri ne avrebbero subito conseguenze devastanti. Per settimane, il governo ha rifiutato di impegnarsi per evitare che oltre un milione e mezzo di bambini e ragazzi potessero non avere abbastanza cibo in uno dei paesi più ricchi del mondo. E certo, se manca il cibo manca anche la possibilità di studiare. E dunque manca la liber­tà. La chiusura prolungata delle scuole allargherà sempre di più la distanza in termini educativi tra i figli dei poveri e i loro coetanei, i figli dei ric­chi, coloro che in tempi di didattica a distanza hanno potuto permettersi case ospitali e grandi, strumentazioni tecniche, qualche libro, e soprat­tutto l’aiuto diretto e consapevole dei genitori. Senza un deciso e massiccio intervento dello Stato temo che queste diseguaglianze sempre più profonde si river­bereranno sul benessere fisico, mentale ed economico di una intera generazione di alunni e studenti per il resto della loro vita. Lo dico con franchezza: siamo una nazione che ha dato priorità all’apertura dei negozi di moda piuttosto che pensare all’educazione dei ragazzi riaprendo in sicurezza e serenità le scuole.

Ancora oggi, mentre scrivo, non esistono linee guida per la riapertu­ra degli istituti scolastici. Il dibattito su quando riaprire le scuole (e metter fine alla penosa esperienza della didattica a distanza per stu­denti, docenti e famiglie), è stato di fatto sottomesso alla volontà di breve termine del governo di muovere guerra al sindacato, come se il sindacato non avesse ottime ragioni e ottimi progetti per far ripartire una macchina complessa con il concorso di chi ci vive e ci lavora. E invece no. Si è deciso di agire in modo monocratico, sbagliando spesso, e cedendo alle sirene, queste sì ideologiche (come direbbe Piketty), delle big-tech per le quali la soluzione, in fondo, è qualche dispositivo elettronico in più in classe. Ecco dove ci porterà la mi­stificazione sulla didattica a distanza, qualora dovesse essere assunta strategicamente e strutturalmente nelle scuole italiane: alla costru­zione, imposta da quella ideologia, del “capitale umano” utile per i nuovi bisogni delle aziende del Terzo millennio, non certo persone libere, emancipate e critiche come prevede la Costituzione. E come prevede l’autentico senso dell’essere e del fare scuola.

Per concludere un breve cenno anche sull’università, e sull’AFAM. Quando venne annunciato il lockdown tutte le università del mon­do, come le scuole, chiusero i battenti. E spostarono le attività di insegnamento e di ricerca online. Ma al personale, tuttavia, vennero forniti poco tempo per prepararsi, poche risorse e pochi mezzi, e uno scarso addestramento. Così, hanno vinto anche nelle università le piattaforme private, le uniche in grado di supportare il faticoso evolversi delle lezioni online. Certo, si è inaugurata la stagione delle lauree online. Certo, una lezione di tipo universitario appare diversa, ovviamente, da quella in una scuola di primo grado. Ma, al di là dei proclami statistici, anche nelle università molti studenti hanno perso un anno della loro preparazione accademica. Ancor più complessa la situazione nelle accademie d’arte e nei conservatori di musica, dove agire in presenza è il fondamento stesso dell’insegnamento. È ba­nalmente complicatissimo studiare il violino o il pianoforte o l’arte della pittura e della scultura online. Se poi si vive in case o in contesti urbani dove non esiste un accesso veloce a internet o la banda larga, i problemi aumentano in modo esponenziale e anche qui, nello stu­dio accademico, le diseguaglianze si approfondiscono. E come per la scuola, anche per le università è stato stanziato un finanziamento di circa un miliardo e mezzo per la digitalizzazione e la modernizzazio­ne, come se, appunto, il problema fosse delle istituzioni, piuttosto che delle famiglie. In Germania, al contrario, l’investimento previsto per le università (gratuite) è stato di 17 miliardi di euro per i prossimi cinque anni, ed è compreso nel pacchetto da 60 miliardi di euro per sostenere istruzione, ricerca e innovazione. Si tratta di un intervento proprio a sostegno degli studenti delle classi meno agiate, che ad esempio hanno dovuto soffrire, e parecchio, anche per effetto della chiusura di bar e ristoranti dove spesso trovavano lavoro per pagarsi gli studi (una costante in molti paesi europei, compresa l’Italia). La lezione tedesca è che senza l’aiuto dello Stato, la formazione uni­versitaria sarà sempre più riservata alle élite. La crisi da Covid-19 sta costringendo le università e le accademie d’arte e i conservatori di musica a confrontarsi con sfide di lungo periodo, tra le quali la percezione sempre più diffusa di elitismo e la necessità di alzare le tasse. È possibile che per ridurre i costi, molte università scelgano di dividere molte classi nella fase online e nella fase in presenza, ma sarebbe davvero una sconfitta. Così, ancora una volta, grazie alla mi­stificazione della pandemia, torneremmo all’indietro nel tempo, con atenei ricchi e potenti, magari tutti al Nord, e atenei che faticano e che forse chiudono, probabilmente al Sud. La cosiddetta “Zoom University” creerà nuovi mostri, e sempre nuove disparità, in una generazione di giovani segnati per sempre dall’abbandono dello Sta­to. Ma ciò non riguarda solo l’Italia. Anche le università più ricche e prestigiose del mondo subiranno cambiamenti e problemi. La Johns Hopkins di Baltimora, ad esempio, perderà centinaia di milioni di dollari nel prossimo anno fiscale. Le università britanniche, comples­sivamente, subiranno una contrazione di almeno 2,5 miliardi di ster­line nel prossimo anno proprio a causa del calo di immatricolazioni studentesche. E in Australia, per effetto del drastico calo degli stu­denti cinesi, si prevede un licenziamento in massa di almeno 21.000 lavoratori a tempo pieno, dei quali 7.000 impiegati nella ricerca. In questi paesi già si immagina la soluzione alternativa con i cosiddet­ti “micro campus”, che agiscono in rete e con pochi programmi in aula, e quasi tutti online. Anche in questo caso, vincerebbero i ge­stori delle piattaforme, i veri grandi “profittatori” dell’emergenza da Covid. Mentre in tutto il mondo le scuole, le università, i centri di ricerca, le accademie rischiano di morire, la strategia dei giganti delle big-tech gestori delle piattaforme assumeranno sempre di più il controllo “ideologico” del pianeta. Piketty ci ha avvertiti, ora spetta a noi reagire.

Per farlo, serve ripensare il modello di sviluppo attraverso il ruo­lo chiave dello Stato che dovrà essere capace di garantire per prima cosa i diritti costituzionali fondamentali a tutti indipendentemente dal luogo in cui vivono. Uno Stato più forte nelle sue infrastrutture fondamentali, quelle che devono presidiare i diritti costituzionali è evidentemente il contrario delle soluzioni autonomistiche lanciate prima che il virus mettesse a nudo i disastri del modello sanitario lombardo. Ecco perché da questo presente deve nascere un futuro diverso, più giusto, più uguale, meno discriminatorio e più inclusi­vo, e noi ci batteremo per realizzarlo. L’istruzione e la scienza sono insieme alla sanità le principali articolazioni dello Stato, quelle da cui si dovrebbe ripartire se davvero vogliamo noi determinare un salto di paradigma che attualmente non è affatto dato. Nulla sarà come prima? Potrebbe essere anche molto peggio se non ci rendiamo pro­tagonisti già in questa fase.

[1] J. Dewey, Pedagogia, scuola e democrazia, Editrice La Scuola, Brescia 2016.
[2] Prospering in the pandemic: the top 100 companies, in “Financial Times”, 19 giugno 2020.
[3] T. Piketty, Capitale e ideologia, La nave di Teseo, Milano 2020, corsivo mio.
[4] Ibidem.


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