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Corriere. Passo coraggioso ora la svolta

di FRANCESCO GIAVAZZI

23/08/2009
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Pagano e Jappelli sono tra i migliori economisti eu­ropei. Se nelle recenti graduatorie del Ministe­ro le università di Napoli e di Salerno — dove entrambi han­no insegnato per oltre vent’anni— sono andate un po’ meglio di altri atenei del Mezzogiorno, è anche grazie alle loro pubblicazioni. Più volte hanno ricevuto offerte attra­enti da università prestigiose, le più recenti da Princeton e dalla London School of Economics: se non hanno mai abbandonato Napo­li è per dimostrare che anche in quella città tanto difficile è possibi­le scrivere articoli per l’ American Economic Review e formare studen­ti che spesso hanno grande succes­so nelle migliori università ameri­cane. È quindi auspicabile che il mi­nistro Gelmini presti particolare at­tenzione a quanto essi scrivono.

Il problema che pongono Jappel­li e Pagano è la sopravvivenza dei gruppi di ricerca eccellenti, e ne esi­stono molti, in diverse discipline, nelle università del Mezzogiorno. Per rimanere all’università di Napo­li, gruppi eccellenti esistono in ge­netica (il Tigem di Andrea Balla­bio) e nella stazione zoologica An­ton Dohrn diretta da Roberto Di Lauro.

«Se volete obbligarci ad emigra­re — è la conclusione implicita nel loro articolo — ditecelo apertamen­te ». Perché dovrebbero emigrare? Se l’assegnazione dei fondi pubbli­ci alle università dipende dalla valu­tazione «media» della qualità della ricerca, i rari gruppi eccellenti so­no destinati ad annegare nella me­diocrità che li circonda, quindi po­co a poco a sparire. Sarebbe un ma­le la concentrazione della ricerca in poche università del Nord? Io pen­so di sì perché sprecherebbe capita­le umano: basti guardare ai nume­rosi studenti di Pagano e Jappelli che oggi insegnano in Gran Breta­gna o negli Stati Uniti (più raramen­te in Italia dove un mercato accade­mico non esiste). Molti di loro, se quel gruppo di ricerca a Napoli non fosse esistito, avrebbero finito per fare gli avvocati, la professione tipica dei ragazzi svegli del Mezzo­giorno.

Ma il rischio maggiore è che casi come questo vengano abilmente sfruttati da chi non vuole che il me­rito entri nell’assegnazione dei fon­di alle università. La decisione del ministro Gelmini di allocare una quota, pur minuscola, dei finanzia­menti pubblici sulla base della qua­lità della ricerca è stato un passo co­raggioso, ma il difficile viene ora. Le riforme graduali devono essere costantemente aggiustate e questo è un esempio. Come? Un modo im­mediato, e attuabile già quest’an­no, è accompagnare il trasferimen­to dei fondi con una lettera pubbli­ca del ministro al rettore nella qua­le si individuino i gruppi di ricerca e i singoli ricercatori di quell’ate­neo che hanno contribuito ad alza­re la quota di fondi assegnata in funzione del merito. Un’altra possi­bilità è seguire l’esempio spagnolo, dove la quota che dipende dal meri­to non si somma al totale dei fondi che l’università riceve, ma prende la forma di «cattedre ad perso­nam » assegnate ai migliori ricerca­tori dell’ateneo — se ne esistono — da una commissione internazio­nale. Un metodo simile è seguito in Canada. È anche necessario che i criteri seguiti nell’allocazione della quota assegnata in funzione del merito siano completamente tra­sparenti: i criteri seguiti quest’an­no, e consultabili sul sito internet del ministero, sebbene in principio coraggiosi, risultano poi annegati in un linguaggio burocratico, da cui traspare riluttanza ad accettare fino in fondo cosa sia l’eccellenza nella ricerca. È un’insufficienza di trasparenza che attenua la percezio­ne degli effetti dell’innovazione vo­luta dal Ministro.

Ma aggiustare le riforme strada facendo non basta. Le riforme gra­duali non possono arrestarsi, altri­menti vengono soffocate. È quindi essenziale che il ministro già nelle prossime settimane presenti al Par­lamento il disegno di legge di rifor­ma della governance e del recluta­mento che da mesi tiene nel casset­to. E poi affronti con coraggio il te­ma del valore legale delle lauree. La storia della nostra università è piena di buone iniziative delle qua­li nessuno più si ricorda perché ab­bandonate e presto sopraffatte. Il ministro Gelmini ha una scelta: o accelera la riforma e lascia un se­gno tangibile sull’università o an­che lei, come tutti i suoi predeces­sori, avrà abbandonato l’università alla sua deriva e sarà presto dimen­ticata.


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