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Contratto, i fondi non bastano

Ok del governo a un incremento di risorse per il 2019/2021

17/12/2019
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ItaliaOggi

Carlo Nobilio

Ci saranno 200 milioni in più per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego. Lo stanziamento aggiuntivo è stato previsto dalla VII commissione del senato in sede di approvazione del disegno di legge di bilancio di quest'anno (AS 1586-A). E la misura recepita nel maxiemendamento su cui è stata posta la fiducia dal governo a Palazzo Madama. La misura riguarda anche la scuola, che comprende circa un terzo degli oltre 3 milioni di addetti della p.a. I fondi disponibili, dunque, passano da 3.175 a 3.375 milioni di euro. La somma individua le risorse a disposizione della contrattazione collettiva per il rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici per il triennio 2019-2021.

Allo stato attuale, dunque, i fondi per il contratto dei docenti e degli Ata rientrano nelle risorse per tutto il pubblico impiego. E ciò rischia di incrementare ulteriormente la forbice esistente tra gli importi delle retribuzioni degli operatori scolastici e degli altri dipendenti pubblici. Il pubblico impiego, infatti, è caratterizzato da sperequazioni di reddito a parità di qualifica, che vede docenti e Ata in una situazione di svantaggio rispetto agli altri lavoratori della p.a. E siccome le retribuzioni della scuola sono più basse, applicando incrementi retributivi con il criterio del medesimo coefficiente, tali sperequazioni sono destinate ad aggravarsi.

Facciamo un esempio. Se a uno stipendio pari a 1.000 euro viene applicato il coefficiente del 3%, l'incremento a regime sarà di 30 euro. Se, invece, il coefficiente del 3% viene applicato a uno stipendio di 2000 euro, l'aumento sarà di 60 euro. Il risultato a regime consisterà in uno stipendio di 1.030 euro contro una retribuzione di 2.060 euro. Il divario, che nella situazione di partenza era di 1000 euro, a regime, sarà di 1.030 euro. La forbice è più evidente tra docenti e funzionari. E cioè tra qualifiche alle quali si accede con il possesso di laurea. E si acuisce per quanto riguarda il compenso accessorio. Anche perché è prassi che ai docenti non venga pagato lo straordinario per le ore in più che vengono sistematicamente prestate nell'ambito delle cosiddette attività funzionali all'insegnamento (riunioni dei consigli, collegi docenti, riunioni di dipartimento, colloqui con i genitori, formazione ecc.). Per quanto riguarda la formazione in servizio, in particolare, mentre nel resto del pubblico impiego avviene nell'orario ordinario di servizio (ma in questo caso gli Ata fruiscono dello stesso trattamento del pubblico impiego) per i docenti, le attività di formazione obbligatoria, quasi sempre, non vengono conteggiate nel monte delle 40 ore previsto dall'articolo 29. E ciò determina, di fatto, un ulteriore deprezzamento della prestazione.

Il tutto con il risultato che la prestazione di fatto viene retribuita in misura ancora minore di quanto previsto contrattualmente. Proprio a causa della prassi deteriore di non retribuire le prestazioni eccedenti l'orario d'obbligo (si veda Italia Oggi del 26 marzo 2019). Un tentativo di ridurre la forbice a vantaggio dei docenti è stato fatto di recente, in VII commissione al senato, in sede di discussione del disegno di legge di bilancio. Nel corso della discussione, infatti, era stato presentato un emendamento per finanziare gli incrementi contrattuali utilizzando i 200 milioni annui previsti dalla legge 107/2015 per retribuire il cosiddetto bonus docenti: una forma di compenso accessorio, la cui attribuzione è nella disponibilità del dirigente scolastico, che attribuisce i compensi sulla base di criteri generali e con ampia discrezionalità.

L'emendamento (28.90 a firma di Granato, Angrisani, Floridia, Montevecchi, Botto, Romano, Croatti, Donno, Trentacoste, Vanin, Marilotti, De Petris) è stato presentato, ma durante la trattazione in commissione è stato modificato e i relativi fondi sono stati riassegnati alla contrattazione di istituto ampliandone la destinazione d'uso. La modifica, peraltro, rispondeva in parte alle richieste dei sindacati. Che, sebbene con qualche distinguo, sarebbero intenzionati a chiedere che anche i fondi della carta del docente vengano stornati e messi a disposizione della contrattazione collettiva nazionale. Allo stato attuale, infatti, queste risorse sono vincolate all'acquisto di beni e servizi finalizzati all'aggiornamento professionale. In pratica, si tratta di una sorta di erogazione liberale con onere modale, in forza della quale i docenti non possono disporne per fare fronte alle esigenze alimentari, ma devono necessariamente spenderli per acquistare beni strumentali (per esempio: libri, riviste, computer o corsi di formazione).

L'utilizzo di questi fondi per il rinnovo del contratto, invece, comporterebbe la piena disponibilità delle risorse e incrementi stipendiali con effetti strutturali sia sull'importo delle retribuzioni, sia sulla pensione e sul tfr. Resta il fatto, però, che per utilizzare i fondi della carta docente per la contrattazione sarebbe necessario un intervento legislativo ad hoc che non sembra profilarsi. Perlomeno a breve termine.


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