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Concorsi in ateneo chiusi agli esterni

S ono bastate poche righe inserite nel Milleproroghe per far slittare ancora di due anni il sostanziale obbligo delle Università di bandire concorsi aperti a candidati provenienti da altri Atenei

02/03/2017
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Corriere della sera

Gianna Fregonara

S ono bastate poche righe inserite nel Milleproroghe per far slittare ancora di due anni il sostanziale obbligo delle Università di bandire concorsi aperti a candidati provenienti da altri Atenei. Il 31 dicembre di quest’anno si sarebbe dovuto concludere il periodo transitorio — sei anni — nel quale gli Atenei hanno potuto, in deroga, procedere a concorsi interni «fino alla metà dei posti disponibili» riservati sia a ricercatori a tempo indeterminato che a professori di seconda fascia, cioè gli associati. Per loro la promozione è una questione interna, senza la concorrenza dei colleghi che lavorano in altri Atenei. Per avere concorsi aperti a tutti gli aspiranti professori che abbiano già sostenuto l’abilitazione si dovrà arrivare al 2020.

Si passa così, con la stessa maggioranza e nel giro di pochi mesi, dal tentativo di istituire le cattedre Natta — che nelle intenzioni dell’ex premier avrebbero dovuto garantire stipendi appetibili e selezioni straordinarie con la contestata e inedita norma che attribuiva al presidente del consiglio la scelta dei commissari valutatori — a mantenere un sistema di promozione degli Atenei del tutto interno e considerato superato dal 2010.

L’emendamento che allunga i tempi è stato presentato al Senato dal Pd (ce ne era uno simile anche di Sel) e in una prima bozza addirittura prevedeva una proroga di 4 anni. «Vogliamo permettere — spiega la senatrice pd Francesca Puglisi — ai ricercatori a tempo indeterminato, che la legge Gelmini ha cancellato, di poter avanzare di carriera: in questi anni ci sono stati tagli e con il regime transitorio non sono stati tutti stabilizzati». È vero, come aggiunge Puglisi, che la norma dice che le Università «possono» e non «devono» bandire concorsi chiusi e che questo riguarda «solo» la metà dei posti. Ma la norma e l’emendamento riguardano non solo i ricercatori a tempo indeterminato, come dice Puglisi, ma anche i professori, cioè di fatto tutti. Tra l’altro per i ricercatori con contratto di 3 anni a tempo pieno — una delle contestate nuove figure create dalla legge Gelmini — la stessa legge prevede già una corsia preferenziale: allo scadere del contratto l’Università può bandire il posto per loro se nel frattempo hanno conseguito l’abilitazione.

«Non siamo stati noi a chiedere questo emendamento — spiega Gaetano Manfredi, presidente della Conferenza dei rettori —. Un’Università sana deve andare nella direzione della qualità, della concorrenza più ampia e dei concorsi aperti. Comunque quella prevista dalla legge Gelmini è una riserva di legge, ci sono molti Atenei che fanno già concorsi aperti e non la usano». È vero, ribattono i ricercatori, che dei due piani straordinari per gli associati se ne è fatto solo uno e ci sono state molte lentezze. E la riserva di legge è servita per assumere i giovani che sarebbero stati penalizzati. Ma chi aspettava la fine di questi 6 anni di proroga e aveva fatto conto di potersi muovere in un sistema di competizione aperta, dovrà aspettare. E soprattutto, a cosa serve una norma di legge se per 8 anni se ne applica un’altra: non è un tempo sufficiente se non la si ritiene corretta per modificarla?