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Conciliare nelle università l’autonomia e i diritti

Questo dibattito sul numero chiuso è parte di un problema ben più ampio e cruciale per preparare la società italiana al nuovo millennio.

11/09/2017
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Corriere della sera

Roger Abravanel

I n questi giorni divampa il dibattito sul «numero chiuso» all’università, dopo la decisione del Tar di bloccare le limitazioni all’accesso a lettere e filosofia della università di Milano.

I difensori del numero chiuso se la prendono con il «Tar del no», ma secondo alcuni il Tar ha solo fatto rispettare una legge che sembra vietare alle facoltà umanistiche il numero chiuso e lo consente solo alle università che utilizzano laboratori e a medicina. Ma, a parte la valutazione giuridica, il dibattito è sul principio: numero chiuso sì o no?

I sostenitori del sì dicono giustamente che è necessario per migliorare la qualità della didattica universitaria e che dovrebbe essere esteso a tutte la facoltà. D’altra parte non hanno torto coloro che sostengono che il numero chiuso non è necessariamente nell’interesse della società italiana che ha pochi laureati. E, se gli studenti selezionati con il numero chiuso hanno un chiaro vantaggio (quelli di medicina in particolare perché hanno un lavoro garantito e meno concorrenza quando si laureano), si sostiene che manca il «diritto allo studio» per gli esclusi. I quali alla fine sono doppiamente penalizzati perché sono in media più poveri e pagano le lauree dei selezionati attraverso le tasse che finanziano la università pubblica.

Sembrano tutti argomenti validi, e se non se ne esce è perché il semplice dibattito «numero chiuso sì o no» non affronta un problema molto più profondo: l’incapacità cronica della nostra politica di conciliare il «diritto allo studio» con la autonomia delle università. Per risolvere questo problema è necessaria una riforma radicale delle università italiane che riconosca che le università non sono tutte uguali.

Ci sono università di eccellenza (necessariamente poche) la cui vocazione è creare la classe dirigente e fare ricerca. Devono necessariamente essere più autonome nel selezionare i propri studenti e potere avere il numero chiuso. Come devono avere anche l’autonomia nel selezionare, promuovere e retribuire i loro docenti. Questo perché competono sia con altre università italiane con la stessa vocazione, sia con università internazionali per i fondi privati e le rette degli studenti; i finanziamenti pubblici devono quindi essere limitati e legati a obbiettivi sociali come per esempio i finanziamenti per le borse di studio degli studenti meno abbienti. Per essere in questa categoria un’università non deve essere giudicata migliore da una commissione, deve vedersela con il mercato perché è in concorrenza con altri atenei.

E non si tratta solo di facoltà di ingegneria o economia. Quasi tutte le grandi università private anglosassoni hanno eccellenti dipartimenti di materie umanistiche che ne aumentano il prestigio. Se queste università non riescono a stare in piedi finanziariamente, si devono ridimensionare o perdere la propria autonomia e cambiare vocazione. In Italia di università potenzialmente di questo tipo ne abbiamo una decina, ma nessuna rientra nelle 100 migliori del mondo. Senza qualche università eccellente, perderemo la sfida digitale dopo aver perso la transizione a una economia post-industriale.

Diverso è il discorso per le università con la vocazione di formare laureati per il mondo del lavoro e il cui obbiettivo deve essere una qualità di didattica tale da avere il più alto numero di laureati che si inseriscono con successo nel mondo del lavoro. Devono essere in gran parte a finanziamento pubblico (con finanziamento legato al numero di iscritti), rette basse e orientamento più territoriale. Non possono decidere autonomamente il numero chiuso e devono concordare eventuali limitazioni con lo Stato che definirà eventuali criteri di selezione che assicurino la qualità della didattica, ma diano accesso a tutti gli studenti meritevoli e sposterà le risorse in funzione del numero di iscritti.

Ma non basta, perché, se oggi il diritto allo studio è abbastanza garantito, ciò che manca è il «diritto al lavoro» perché, per colpa della pessima qualità media della didattica delle università italiane, il «pezzo di carta» ha perso ogni valore per le imprese private; ne consegue che i meno abbienti sono scoraggiati a investire in anni di studio e si laureano solo i figli dei ricchi. Per questo il ministero deve riuscire a valutare seriamente la qualità della didattica di queste università e distribuire le risorse di conseguenza. Cosa che oggi non avviene. Il principio per queste università è opposto alle altre: più fondi pubblici, meno autonomia.

Questa idea che le università possono avere vocazioni diverse non è nuova. Ma da anni viene rifiutata dai docenti (delle università del secondo tipo) e dalla politica. Ma il mercato del lavoro ha già fatto la sua selezione, le imprese sanno benissimo quali sono le università di élite (sono una decina) e questo è testimoniato dal fatto che, anche a ingegneria, una facoltà con grande domanda di laureati, il 90 per cento dei laureati del politecnico di Milano trova lavoro, mentre in alcune università mediocri, gli occupati a un anno sono meno della metà.

Questo dibattito sul numero chiuso è quindi parte di un problema ben più ampio e cruciale per preparare la società italiana al nuovo millennio. Sarebbe il caso di sfruttare l’occasione per agire in modo coraggioso.


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