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«Competenze digitali più diffuse e ricerca, motori per la crescita»

GAETANO MANFREDI MINISTRO dell’UNIVERSITà «Il Recovery fund è un’occasione, ora fare sistema»

15/08/2020
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Corriere della sera

Il guaio, quando si parla di tecnologia, è pensare sia solo questione da ingegneri e informatici. Il ministro della Università e della Ricerca, Gaetano MANFREDI, non lo dice esplicitamente, ma è quello che pensa: «Oggi è necessario avere progetto strategico per la grande transizione, digitale e green. Per costruire un Paese più competitivo occorre affrontare i modelli organizzativi di tutto questo. Le due linee di indirizzo sulle quali puntiamo sono l’aumento diffuso delle competenze digitali e il piano per la ricerca 2020-2027, sul quale è appena partita la consultazione pubblica. Il punto è questo: la ricerca deve diventare un terreno condiviso con i cittadini. È un pezzo della trasformazione sociale, non solo una questione di formule matematiche».

Per la verità spesso diventa occasione di battaglia, se pensiamo ai 500 sindaci contro il 5G?

«Appunto. Se la ricerca non viene spiegata, la tecnologia può diventare un nemico. Può fare addirittura paura. E questo non aiuta un Paese che vuole crescere. Digitale e ricerca sono due motori formidabili per lo sviluppo. Non è solo una questione di risorse finanziarie, ma di strategie utili per indirizzare le aree nelle quali l’Italia può giocare una partita. Pensi alla ricerca biomedica. In questi mesi dalla diagnostica alla farmaceutica, il nostro Paese ha dimostrato di avere le carte in regola. E molto possiamo fare anche sull’intelligenza artificiale, sulla cybersecurity».

Però il divario sulle competenze digitali è alto?

«Il deficit di competenze è una grande barriera. Non abbiamo bisogno solo di super esperti di big data, di sicurezza informatica di intelligenza artificiale. Servono avvocati, economisti, medici, filosofi con competenze digitali diffuse. Il piano prevede la modernizzazione dei processi formativi, non solo verso la specializzazione. C’è stato un gran lavoro di coordinamento tra i ministeri perché le tecnologie digitali e la transizione verde sono trasversali. Una cosa da professore me la faccia dire».

Prego.

«Per capire la complessità non bastano risposte semplici».

Però è anche vero che la ricerca è stata per anni fonte di spreco, duplicazioni…

La tecnologia

La ricerca e l’innovazione vanno condivise con i cittadini. Che spesso vivono la tecnologia come un nemico

«Abbiamo l’idea che con una governance più efficace questo si possa correggere. Però c’è anche un ruolo sociale della ricerca. Bisogna valutare gli impatti di alcune tecnologie, non dimenticare le persone, ma coinvolgerle. Pensi alle barriere ideologiche che si sono create per i vaccini, per il 5G, anche per le pale eoliche o per le biomasse necessarie per l’energia rinnovabile. Tante applicazioni hanno difficoltà perché non c’è condivisione e i cittadini le vivono come un nemico».

Come il 5G o gli investimenti per una rete unica.

«Esatto. Per la rete è importante il ruolo del pubblico, bisogna però stabilire un equilibrio con i privati. L’infrastruttura sarà decisiva per lo sviluppo digitale del Paese. Bisogna superare questo conflitto latente tra tecnologia e società. E quello che è accaduto durante il lockdown ci ha offerto molte risposte…».

Per esempio?

«È stata la fotografia del futuro, come un grande esperimento a livello mondiale. Abbiamo capito tutti che se non c’è accesso alle nuove tecnologie, i divari si amplificano. E aumentano anche le disuguaglianze. Per questo può essere decisivo il buon uso del Recovery fund, un’occasione che non possiamo preparare con il vizio italico delle polemiche a breve termine».

Eppure, l’Italia spende in ricerca poco più dell’1,5% del Pil.

«Ci stiamo impegnando per aumentare questa soglia. La ricerca è fatta dal pubblico e dal privato. Quello che è fondamentale è tutelare in maniera forte la regola della trasparenza e della condivisione. Abbiamo bisogno di una ricerca di sistema. Per questo il dialogo avviato con le aziende, con le Università, con le Regioni, con Bruxelles sta dando buoni risultati per aumentarne l’efficienza e ridurre gli sprechi. C’è questo dietro l’idea di una consultazione pubblica sul programma per la ricerca 2020-2027 che sarà aperta per un mese. L’Italia è già uno dei protagonisti mondiali. Il podio nelle classifiche cambia molto velocemente, Israele e Corea sono cresciuti molto rapidamente negli ultimi vent’anni. Molti si illudono che sia solo questione di talenti. Vero, sono fondamentali. Ma hanno bisogno di lavorare in un contesto favorevole, altrimenti non bastano».

Il piano

Il dialogo avviato con aziende, università, Regioni e Bruxelles sta dando buoni risultati per ridurre gli sprechi

Il Mezzogiorno potrà avere un ruolo?

«Certo, per due motivi almeno. Rappresenta una grande opportunità grazie ad un capitale umano di grande qualità e comincia ad attrarre imprese ad alta tecnologia. Potrebbe diventare una piattaforma verso il Mediterraneo. Una cerniera. Lo ripeto: la ricerca deve servire a ridurre i divari. Più competenze diffuse ci sono, più la società diventa equa ed equilibrata. Nell’interesse del Sud e del Nord. Come è accaduto con l’unificazione della Germania. L’Italia sta dimostrando una grande vivacità, soffre di un problema di organizzazione e in questo un ruolo decisivo potranno averlo le scienze umane e sociali. La trasformazione si basa sulle regole, modifica i modi di vivere. E per accompagnare questi processi servono sociologi, filosofi, giuristi, economisti. Quando dico cambiamenti trasversali mi riferisco a questo. Le antiche barriere tra umanisti e scienziati non valgono più, forse non sono mai esistite. Per questo l’Italia ha avuto il suo Rinascimento».


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