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Come affrontare i problemi dell’educazione: la melassa e la striglia

Di Benedetto Vertecchi.

05/05/2018
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Tuttoscuola

C’è una via facilior ed una difficilior nell’affrontare i problemi dell’educazione. Il modo più semplice è quello di porsi in un atteggiamento di denuncia e di critica, quello più difficile consiste nel cercare le cause di un malessere così profondo e di tentare di contrastarlo modificando sia le interpretazioni, sia le attese di comportamento dei diversi attori che concorrono a definire il processo educativo: gli insegnanti, gli allievi, i genitori, l’apparato amministrativo, il sistema politico, le forze sociali. E, mi permetto di aggiungere, dopo che un nuovo attore (addirittura con ruolo di protagonista) è stato annunciato dall’Ocse, l’economia globalizzata (ovvero, le multinazionali, i mezzi di comunicazione, le organizzazioni produttive). Mi sono chiesto se possa essere considerata una via mediana tra le due che ho indicato: sono giunto a una conclusione negativa. La stessa ipotesi di una via mediana è in palese contraddizione con le condizioni nelle quali oggi si pratica l’educazione, perché suppone che aspetti positivi e negativi possano mostrarsi separati ed essere apprezzati sulla base di criteri privi di contaminazioni.

Conviene precisare che la rinuncia a considerare una via mediana non va considerata un’espressione di radicalismo critico, ma una conseguenza necessaria dei cambiamenti che da qualche decennio stanno mutando il quadro delle interpretazioni educative, investendo non solo l’educazione scolastica (alla quale troppo spesso ci si riferisce in misura prevalente), ma l’educazione nel suo complesso, le sue interpretazioni e le pratiche che in modi più o meno consapevoli ne sono derivate. Per quanto possa sorprendere chi non è abituato a considerare i fenomeni educativi nella loro dimensione temporale, le tre vie che abbiamo appena indicato (facilior, mediana, difficilior) danno luogo a distinte interpretazioni per la rilevanza che riconoscono, o non riconoscono, al volgere del tempo. In particolare, la via facilior considera la varietà dei fenomeni per la misura in cui si discostano da modelli acquisiti e solidificati attraverso il tempo: le interpretazioni che ne derivano sono fondamentalmente conservatrici, perché il presentarsi di fenomenologie inconsuete apre un intervallo generatore di apprezzamenti negativi. Quel che non si considera è però che si tratta di un intervallo che caratterizza le condizioni di vita, e investe l’educazione sia che si abbia una precisa nozione della distanza fra ciò che è consueto e ciò che non lo è (fratture categoriali), sia che ci limiti a rilevare la distanza fra le attese (ovvero, l’accumulazione esperienziale) e i fenomeni osservati: in altre parole alla stabilità di giudizi che si ripropongono fra le generazioni si oppone la variabilità che si coglie nel manifestarsi contingente di cambiamenti. Ovviamente, la via facilior (ma lo stesso potrebbe dirsi delle altre due) può assumere aspetti diversi, che possono far pensare a linee interpretative lontane fra loro. Segue una via facilior sia chi ostenta atteggiamenti di rifiuto verso aspetti dell’educazione che in altri momenti sarebbero stati considerati devianti, sia chi si astiene dall’esprimere un giudizio, non importa se per rassegnazione o per l’assunzione di atteggiamenti paternalistici.

Il limite di quella che si è indicata come una via mediana è che si colloca sull’incerto confine fra l’accumulazione esperienziale (che era propria della via facilior) e l’apparire contingente di tratti non consueti. I giudizi che ne derivano per un verso sono generalizzazioni (ovvero, induzioni per conferma attraverso le generazioni di concezioni educative considerate stabili), ma per un altro verso sono abduzioni, ovvero estensioni interpretative di esperienze limitate. È del tutto improbabile che una via mediana possa resistere quel tanto che basti per rilevarne nel tempo la validità: c’è piuttosto da attendersi che nuove abduzioni sostituiscano quelle da poco affermate. Se la via facilior tendeva (e tende) a ricondurre la teoria e le pratiche dell’educazione a modelli di valore accreditati per la loro stabilità, la via mediana sembra aver invertito i termini della relazione: sono le teorie e le pratiche sulle quali si raccolga un consenso, per quanto contingente ed effimero, a prevalere sui modelli di valore.

Resta da considerare la via difficilior: la sua difficoltà consiste in gran parte nel formulare interpretazioni dei fenomeni educativi collocate coerentemente su un asse diacronico. In altre parole, se in altre fasi dello sviluppo storico i tempi del cambiamento si estendevano oltre le due-tre generazioni entro le quali si stabilizzavano le esperienze, oggi cambiamenti ben più rilevanti si osservano entro una sola generazione. Anzi, è proprio di queste ultime generazioni (il riferimento temporale consueto è a una trentina d’anni) il coinvolgimento in contesti i cui tratti iniziali decadono prima che l’intervallo convenzionale indicato si sia concluso. Ormai occorre tener conto di intervalli molto più brevi, in un fluire di cambiamenti che dovrebbe scoraggiare le attrazioni abduttive della via mediana. Ma ciò che distingue più nettamente la via difficilior dalle altre è che oggi non avrebbe senso tentare interpretazioni educative restando confinati nell’ambito formale. Sullo sviluppo nella prima parte della vita incidono non solo gli interventi esplicitamente rivolti a perseguire intenti educativi (come sono sia quelli scolastici, sia le scelte che caratterizzano i contesti di vita, in famiglia e in ambienti prossimi), ma altrettanto, e forse di più, le estensioni educative di categorie di valore affermate nella vita sociale. Ne deriva una enorme estensione degli ambiti di esperienza, ma allo stesso tempo la perdita di spessore delle capacità che a quegli ambiti sono collegate.

Chi ha responsabilità prioritariamente educative, e in primo luogo i genitori e gli insegnanti, vede ridursi il suo spazio di scelta per la presenza di un Grande Educatore impersonale, dal quale dipendono in misura crescente gli stili di vita di bambini e ragazzi. Il Grande Educatore sostituisce le interazioni personali fra i bambini e fra gli adulti e i bambini proponendo (si potrebbe anche dire imponendo) linee di comunicazione povere di interazioni e limitate nel linguaggio. Ai bambini e ai ragazzi si richiede una minore capacità di operare: quel che ne consegue è il ridursi dell’autonomia. A comportamenti che almeno in parte sono il riflesso di una creatività individuale si sostituisce l’acquisizione di beni completamente definiti nelle loro caratteristiche. Non sorprende ormai nessuno vedere bambini e ragazzi che si riteneva desiderassero determinati oggetti, una volta che ne dispongano, abbandonarli senza mostrare più nei loro confronti un particolare interesse. Assistiamo all’affermazione del Grande Educatore, la cui pedagogia si riduce ad una immersione crescente in consumi omologati ed effimeri.

La pedagogia del Grande Educatore si sviluppa in un primo tempo secondo una prospettiva di banalizzazione, cui segue in un tempo successivo una scomposizione sociale che assume la forma di una clessidra asimmetrica (la parte più modesta della popolazione, che occupa la posizione inferiore, è molto più numerosa di quella che ricopre posizioni elevate). Nel titolo di questo intervento la banalizzazione corrisponde alla melassa e la scomposizione alla striglia. La melassa e la striglia sono, infatti, metafore dei destini di vita negli anni dell’adattamento iniziale e di quelli che seguiranno nella vita adulta. La banalizzazione dispone di un apparato didattico formidabile, il cui impiego ha inizio fin dalle prime settimane di vita. Il Grande Educatore (o, se preferite, il mercato) si oppone alle pratiche e alle dotazioni locali per imporre pratiche e dotazioni globalizzate. La banalizzazione investe l’alimentazione, il vestiario, il gioco, la comunicazione. Ai bambini si richiede di svolgere un numero sempre più limitato (e più povero) di operazioni: sono sempre più numerose le insegnanti delle scuole materne che mi segnalano la difficoltà di svolgere attività che un tempo non presentavano particolari difficoltà, come usare le forbici, spalmare la colla, allacciare le scarpe, soddisfare autonomamente i bisogni di base, usare le posate senza disseminare il cibo e via elencando. Il fatto è che non ci troviamo di fronte solo a una regressione della motilità (che si rivelerà in modo evidente quando la capacità di controllare il movimento sarà richiesta per tracciare simboli), ma a un più generale rallentamento dello sviluppo mentale, la cui più evidente espressione è la riduzione della competenza verbale. La grande quantità di giocattoli offerti di continuo non aumenta le possibilità di esperienza, ma le banalizza immettendo i bambini in una sorta di Truman Show in plastica, dove l’immagine contrasta con la realtà che dovrebbe essere rappresentata e la consistenza non ha nulla a che fare con quella degli oggetti imitati. Non deve sorprendere se tanti bambini si impegnano in una sorta di guerra di liberazione dalla banalità del mercato, sostituendo le offerte consumistiche con materiali semplici o utilizzando in modo del tutto imprevisto i doni ricevuti.


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