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Aver paura dei nuovi cittadini

di Tito Boeri

02/11/2019
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la Repubblica

Serpeggia un sacro terrore tra i banchi di Montecitorio quando si parla di leggi sulla cittadinanza. Chi deve farsi rieleggere traduce Ius soli in terreno minato, Ius culturae in un prodotto per élite dunque, di questi tempi, altamente urticante. Si teme, per il solo fatto di parlare di cittadinanza, di fare un regalo a chi ha costruito le proprie fortune sull’odio nei confronti degli immigrati. Ma è davvero così? Non è peggio il non dire che il dire, non informare che informare? I fatti sono sempre i migliori antidoti ai luoghi comuni.

Sono 1 milione e 300 mila i figli di immigrati che vivono nel nostro Paese. Tre su quattro sono nati in Italia. Più della metà hanno meno di 8 anni, sono dei bambini.

Parlano la nostra lingua, spesso i nostri dialetti e hanno le nostre stesse inflessioni. Basta lasciarli parlare per capire chi vive a Roma, chi a Brescia e chi a Catania. In 842.000 vanno a scuola e sono seduti sui banchi di fianco ai nostri figli o ai figli dei nostri figli. Molti, come i talenti under 17 di calcio che non sono potuti andare in Brasile a difendere i nostri colori, vorrebbero indossare la maglia azzurra nelle competizioni sportive, ma non possono farlo. Hanno legami molto labili con il Paese d’origine dei loro genitori.

Ha senso farli sentire apolidi a casa nostra? Ha senso presentarli ai nostri figli come degli estranei? Ha senso insegnare loro nella nostra scuola le nostre leggi, le nostre norme sociali, la nostra storia, impartire loro la nostra cultura per poi escluderli da tutto questo? Non corriamo il rischio di sviluppare in loro e nei nostri figli un sentimento di impotenza appresa, di ingiustizia, di discriminazione, premessa di rancore, odio, diffidenza? In un mondo sempre più integrato, all’interno dell’Unione europea, la cittadinanza in un singolo Paese membro ha un significato molto limitato sul piano strettamente economico. Mantiene, invece, un grandissimo significato sul piano identitario, infonde uno spirito di appartenenza a qualcosa di comune che è fondamentale per la coesione sociale, induce partecipazione a quell’associazionismo altruista di cui si nutrono le democrazie.

Da 30 anni aspettiamo una riforma di un diritto di cittadinanza che era stato pensato per un Paese di emigrazione anziché di immigrazione come ormai da tempo siamo. È una legge che attribuisce diritto di voto a chi non paga né mai pagherà le tasse da noi e lo nega invece a chi ha sempre pagato le tasse contribuendo a finanziare le nostre pensioni, ma non ha genitori o antenati italiani. Un bambino nato in Italia da genitori stranieri può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e se fino a quel momento ha risieduto in Italia «legalmente e ininterrottamente». Non c’è alcuna garanzia che il diritto venga concesso e si impedisce per 20 anni all’intera famiglia di passare periodi all’estero.

Non possiamo restare ancora a lungo senza una legge che favorisca l’integrazione. Sono già tantissimi gli immigrati che vivono da noi e questi, volenti o nolenti, rimarranno da noi. I minori di immigrati sono quasi il 15 per cento dei minori in Italia. Non possiamo permetterci di creare dei disadattati. È non solo profondamente ingiusto. È pericoloso. Chi ha a cuore la sicurezza degli italiani che vivono nelle aree ad alta densità di immigrati non può che puntare sull’integrazione della seconda generazione di immigrati.

La Germania ha superato 20 anni fa lo Ius sanguinis per introdurre un diritto di cittadinanza che pone come requisito il completamento di un ciclo scolastico.

Questo ha portato i genitori a investire di più nell’istruzione dei loro figli e questi ultimi a impegnarsi a scuola molto di più. Gli immigrati fanno meno figli, forse perché costa di più farli quando si vuole farli studiare a lungo, ma dedicano a questi figli molte più attenzioni e affiancano gli insegnanti nello stimolarli a mettere a frutto il tempo passato a scuola. Passano più tempo con famiglie tedesche anziché isolarsi con persone della stessa etnia. E i figli imparano più rapidamente e meglio il tedesco.

Noi avremmo un bisogno enorme di adottare un regime di questo tipo. I tassi di abbandono scolastico fra i minori di immigrati sono attorno al 35%, un’enormità.

Dare una prospettiva di cittadinanza a chi completa con successo il proprio curriculum aiuterebbe moltissimo a ridurre questo spreco di capitale umano. Un ciclo scolastico significa 5000 ore di lezione sulla nostra cultura. Altro che le 5 ore di educazione civica previste per concedere il patto di integrazione!

Insomma la cittadinanza condizionata all’istruzione – chiamiamola Ius culturae , Ius scholae o Ius educationis – non è un assegno in bianco, ma è una forma di naturalizzazione. Si chiede molto a chi vuole ottenerla, ma in cambio si concede qualcosa di importante. È un premio e il fatto stesso di concederlo a fronte di un investimento in capitale umano è un segnale per tutti anche per chi nasce avendo già la cittadinanza italiana in tasca. Potrà essere valorizzato organizzando, ad esempio, cerimonie nelle scuole che uniscano il completamento con successo del ciclo di studi alla concessione della cittadinanza agli immigrati, con i loro compagni di classe. Sono voti anche quelli e sono voti che dureranno a lungo.