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L’Università zoppa: conta solo la ricerca mentre la didattica viene trascurata

Lo studio della Fondazione Agnelli e dell’Aie sulla didattica, la Cenerentola dell’università italiana. Gavosto: «Basta incentivi solo alla ricerca: è ora di puntare sugli apprendimenti degli studenti»

30/09/2016
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Corriere della sera

di Orsola Riva

La Cenerentola dell’università

La Buona Università? Dovrebbe puntare sulla didattica oltre che sulla ricerca e invece, dalla riforma Gelmini in poi, i dolorosissimi tagli subiti (800 milioni e 10 mila docenti in meno rispetto al 2009) hanno accelerato un processo di competizione spietata fra gli atenei per aggiudicarsi la fetta più grande possibile di finanziamenti puntando quasi esclusivamente sui risultati nella ricerca (gli unici finora oggetto di una valutazione nazionale). Eppure la didattica dovrebbe essere la prima gamba, il pilastro irrinunciabile del sistema universitario, tanto più in un Paese come il nostro che è in fondo alle classifiche internazionali per numero di laureati (solo il 25 per cento di giovani laureati contro una media europea del 40 per cento).

E’ avendo ben chiari i numeri di questa emergenza nazionale che la Fondazione Agnelli insieme all’Associazione italiana Editori ha promosso una ricerca che si propone di spostare l’attenzione proprio sulla Cenerentola degli atenei. «Con questa prima ricerca - spiega Andrea Angiolini, direttore editoriale de Il Mulino -, l’Associazione italiana editori intende contribuire allo sforzo di riportare la didattica universitaria al centro della discussione». Lo studio viene presentato oggi nella Sala del Mappamondo di Montecitorio, presente la ministra Stefania Giannini.

90 professori

Gli intervistati sono 90 ricercatori, professori associati e ordinari di tutta Italia che insegnano chimica, management, medicina, giurisprudenza, ingegneria e filosofia.

«Personalmente sono rimasto colpito dalla passione per l’insegnamento dei nostri docenti - dice il professor Matteo Turri, docente di management pubblico alla Statale di Milano e autore dello studio -. Sono loro stessi a rammaricarsi del fatto che tutti gli incentivi siano legati alla ricerca e solo a quella».Coordinamento fra docenti, questo sconosciuto

«C’è - è vero - un buon coordinamento sugli aspetti organizzativi come l’orario delle lezioni, ma mancano le sinergie sui contenuti», osserva Turri. Meno di 4 docenti su dieci dichiarano di aver preso parte a occasioni formali di confronto sulla progettazione didattica con i colleghi del corso di laureai.

Ogni professore disegna i contenuti del proprio insegnamento in totale autonomia, «mentre, solo per fare un esempio, le lezioni di diritto amministrativo e costituzionale o quelle di marketing e economia aziendale si potrebbero coordinare», spiega ancora Turri.

Quanto pesa un esame?

In generale però manca nei soggetti intervistati la consapevolezza di come il singolo possa contribuire al raggiungimento o meno dei risultati attesi per quel corso di laurea.

Né qualcuno si pone il problema della coerenza del carico di lavoro imposto agli studenti con il sistema dei crediti formativi. Il professor Turri fa l’esempio del temutissimo esame di Analisi1 a Ingegneria. Chi stabilisce che debba valere 9 crediti o 12? Nessuno, o meglio: lo decide il singolo prof. Senza rendersi conto che un esame tarato male rischia di rallentare la carriera universitaria dei ragazzi. In un contesto come quello italiano dove solo il 26,8 degli studenti si laurea in corso (parliamo di lauree triennali). «I ritardi naturalmente dipendono da diversi fattori - dice Turri -: in primis, il basso diritto allo studio che costringe tanti a lavorare mentre studiano. Ma, certo, molti esami troppo pesanti possono rallentare ulteriormente il passo».

Giù dalla cattedra

Quanto al modo di insegnare, in generale sembra dettato più dalla forza dell’abitudine che dal tentativo di esplorare nuove metodologie potenzialmente più efficaci. Il modello prevalente resta quello della lezione frontale ex cathedra.

Lo stesso vale per le modalità di verifica degli apprendimenti. Non c’è la consapevolezza che il modo in cui viene strutturato l’esame influenzi anche il modo di studiare dei ragazzi, che sarà più o meno nozionistico a seconda del tipo di prova. «In Inghilterra invece ci si coordina anche nella preparazione delle prove che vengono validate da altri colleghi sia nella fase preparatoria che in quella di correzione dei compiti», osserva il professor Turri

L'avanguardia inglese

Nel Regno Unito, spiega ancora Turri, dopo che dalla Thatcher in poi ci si era concentrati quasi solo sulla ricerca, negli ultimi anni si sta lavorando molto sulla didattica. Dal 2003 esiste un ente, la Higher Education Academy, il cui scopo è promuovere la qualità dell’insegnamento universitario fissando degli standard validi per tutti e indispensabili per poter fare lezione. L’idea di base è che l’insegnamento debba essere focalizzato sull’apprendimento degli studenti.

«E questo vale anche per il ricercatore più bravo. Se non ha seguito dei corsi di formazione, prima di poter fare lezione dovrà andare a lezione lui stesso per migliorare le proprie competenze didattiche», dice Turri.

Il ritardo italiano

Da questo punto di vista l’Italia è gravemente in ritardo. Gli intervistati ammettono di sentire un forte pressing psicologico sui loro risultati in termini di qualità della ricerca mentre la didattica appare loro ininfluente ai fini della carriera.

«Serve un sensibile miglioramento della qualità della didattica nelle università italiane. Precondizione è una specifica formazione degli stessi docenti - osserva Andrea Gavosto, direttore Fondazione Agnelli -. Ma devono esserci gli incentivi affinché questo avvenga, incentivi che finora hanno invece spinto atenei e docenti a dare un peso preponderante alla ricerca».

Gli incentivi alla didattica che mancano

Ed è così che quasi la metà dei docenti si dice disinteressato ad attività di aggiornamento professionale per poter concorrere a migliorare gli apprendimenti dei ragazzi.

Emergenza abbandoniEmergenza abbandoni

Un’occasione mancata in un contesto drammatico come quello italiano dove il tasso di abbandono universitario è molto più alto che negli altri Paesi. Il 14% delle matricole lascia già al primo anno. Ora della fine del triennio uno su 4 è fuori.

Selezione darwinianaSelezione darwiniana
A sei anni dall’immatricolazione, gli studenti persi per strada sono addirittura uno su tre. Un sistema di selezione darwiniana crudele che penalizza soprattutto gli studenti con un diploma professionale e quelli del Sud (dati Anvur).
Il confronto internazionaleIl confronto internazionale

Alla fine, poco più di una matricola su due è destinata a farcela. A dieci anni dall’iscrizione il livello di laureati si attesta attorno al 57-58 per cento, con un tasso di abbandono del 42%, molto al di sopra della media Ue (31%) e Ocse (30%).

Naturalmente sarebbe sbagliato imputare la dispersione universitaria alla didattica: la mattanza di matricole al primo anno dimostra infatti che c’è un problema enorme di orientamento all’entrata. Nel confronto con gli altri Paesi pesa moltissimo - come sottolineano i periodici rapporti Ocse - anche la mancanza di lauree professionalizzanti e di cicli universitari brevi che potrebbero essere portati a termine più facilmente da chi non ha fatto il liceo ma ha alle spalle percorsi scolastici più deboli. Mancano anche corsi part-time che rappresenterebbero un’opportunità importante per chi lavora. Ultimo ma non ultimo: il problema del diritto allo studio che in Italia non è garantito, visto che gli aventi diritto superano grandemente il numero di borse a disposizione: a livello nazionale vengono soddisfatte circa il 70 per cento delle richieste, con enormi squilibri fra Nord e Sud. Resta il fatto che in un contesto tanto drammatico la didattica andrebbe valorizzata almeno quanto la ricerca, mentre purtroppo continua ad essere qasi completamente negletta.


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