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Università: tornano a crescere le matricole, invecchiano i professori

Rapporto biennale Anvur sui novanta atenei italiani: pochi corsi in inglese, finanziamenti insufficienti, lontani dalle medie internazionali. E i docenti hanno in media 53 anni

25/05/2016
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la Repubblica

Corrado Zunino

ROMA - Il Rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca, presentato oggi dall'Anvur, l'Agenzia di valutazione del sistema, al ministro Stefania Giannini, in un mare di questioni critiche conferma che "il fenomeno di maggior rilievo rispetto al precedente rapporto è dato dalla ripresa delle immatricolazioni, soprattutto nella fascia di età più giovane", dopo stagioni di continue riduzioni. Negli ultimi due anni il calo si è arrestato e negli ultimi dodici mesi si è registrata "una decisa inversione di tendenza, con un incremento dell'1,6 per cento del numero di immatricolati" (del 2,4 per cento tra i giovani con età inferiore a 20 anni). Le matricole sono cresciute al Nord del 3,2 per cento, al Sud dello 0,4 e sono sorprendentemente scese al Centro dello 0,1. Al contrario del resto d'Europa, i "nuovi iscritti" da noi sono i ventenni post-diploma: ormai chi entra in università dopo i 25 anni è solo il 4 per cento (era il 15 per cento nel 2005, quando il lavoro dava crediti universitari).
 
Gli studenti d'università non italiani sono passati dal 2 per cento del Duemila al 9 per cento di oggi, ma questo è uno dei segmenti su cui il sistema dovrà lavorare per automantenersi e soprattutto formare leve di giovani preparati. Durante la crisi sono scesi gli immatricolati italiani, di due punti tra il 2007 e il 2012: nell'ultimo anno un punto è stato recuperato. Nel triennio 2012-2015 gli atenei del Sud hanno perso il 17 per cento degli studenti rispetto al 2007-2010 con una punta di -26 nelle Isole. Al Nord-Est il calo è stato solo dell'uno per cento, nel Nord-Ovest anche in tempi difficili le nuove matricole sono cresciute di quattro punti. C'è un sei per cento in più di ragazzi del Sud che si è spostato per gli studi superiori al Centro-Nord. Il Piemonte oggi attrae un quarto degli iscritti da fuori regione: era solo il 12 per cento nel 2007. Per quanto riguarda la scelta disciplinare, crescono le lauree di Ingegneria, cala l'area giuridica.
 
Novanta università pubbliche, private, telematiche
 
Il sistema universitario italiano è basato sulle università statali (61 atenei), che accolgono nove iscritti su dieci. Oltre l'83 per cento degli studenti è concentrato in 41 atenei medio-grandi (almeno 15.000 studenti). Nelle lauree triennali solo il 58 per cento arriva in fondo al percorso, a fronte di un 39 per cento di abbandoni. Una quota alta rispetto ai paesi industrializzati. Ed è alta, quasi la metà, l'aliquota di studenti provenienti da un istituto professionale che lascia l'università. Uno su sette cambia corso tra il primo e il secondo anno: un riorientamento che fa perdere una stagione piena. Il voto medio degli universitari in corso è 26,78, la media di laurea 104,41. Al Nord i laureati regolari stabili sono il 38-40 per cento, al Sud e nelle Isole il 22-23 per cento. Il 55 per cento delle matricole è donna. La laureata ideale è donna, del Nord-Ovest, proveniente da un ateneo medio-grande.
 
Pochi laureati, lavoro più facile
 
Nonostante una costante crescita osservata negli ultimi anni, siamo tra gli ultimi in Europa per quota di popolazione in possesso di un titolo di istruzione terziaria. Il nostro paese ha colmato la distanza sui giovani che conseguono il diploma di scuola secondaria superiore, ma i tassi di accesso all'istruzione successiva sono più bassi delle medie internazionali (42 per cento contro 63 della media Ue, 67 della media Ocse).  L'Anvur ritiene siano tre le cause del ritardo: triennali fortemente teoriche con pochi corsi di carattere professionale e, come si è visto, ancora pochi iscritti stranieri e tassi di abbandono alti. Il numero complessivo di diplomi di laurea di primo e secondo livello e di corsi a ciclo unico di nuovo e vecchio ordinamento si è stabilizzato intorno ai 300.000, con un leggero aumento negli ultimi tre anni. In un quadro di profonda crisi economica, l'istruzione universitaria continua a fornire un vantaggio consistente sul futuro lavoro: tra il 2007 e il 2014 lo scarto tra il tasso di disoccupazione dei neolaureati e dei neodiplomati è passato da 3,6 punti a 12,3 punti (a favore dei primi). Si sono ridotti i fondi acquisiti autonomamente dai singoli atenei. 

L'austerity post-Gelmini
 
Anche per il 2016, fatta eccezione per il diritto allo studio, il finanziamento statale delle università si assesta su valori di poco superiori a quelli del 2015. Le entrate delle statali, dopo essere cresciute del 25 per cento tra il 2000 e il 2008, si sono ridotte del 18 nel periodo successivo. La spesa per il personale negli atenei è diminuita di un quinto rispetto al 2008, e questo è frutto della Legge Gelmini e degli sforzi fatti dalle singole amministrazioni per rientrare da gestioni in rosso: le spese dei dipartimenti sono scese dal massimo del 95 per cento raggiunto nel 2010 all'85,3 nel 2014. Metà degli interventi di sostegno agli universitari è coperto dalla tassa regionale versata dagli studenti stessi. L'importo medio delle tasse pagate per l'iscrizione a un ateneo statale ammonta a 1.071 euro: 700 euro in media al Sud, quasi 1.400 euro al Nord.
 
Il post-Gelmini, con i suoi tagli brutali e il turnover bloccato, ha significato soprattutto il crollo dei docenti in cattedra: erano 62.753 nel 2008, sono diventati 50.369 nel 2015. Oggi ci sono trenta studenti per ogni docente "e nemmeno il piano straordinario 2016 che prevede il reclutamento di 861 nuovi ricercatori a tempo determinato di tipo B riuscirà a modificare questa configurazione". Su un totale di 44.345 studiosi titolari di assegno di ricerca tra il 2009 e il 2015, solo il 7 per cento oggi è abilitato alla qualifica di docente associato, lo 0,1 un ordinario. Dei 5.643 studiosi con un contratto di ricercatore a tempo determinato, il 29,3 per cento oggi è associato, l'1,1 ordinario. Negli ultimi ventisette anni il processo di innalzamento dell'età dei docenti è stato continuo: dal 1988 al 2015 l'età media è aumentata di quasi 7 anni, arrivando a sfiorare i 53.
 
I professori associati insegnano per 111,6 ore l'anno, gli ordinari per 110,3 ore, i ricercatori a tempo indeterminato per 77,4 ore, i ricercatori a tempo determinato 67,8 ore. Un docente di Ingegneria industriale e dell'informazione eroga didattica per 130,6 ore, un docente di Medicina per 69,4. Al Sud si insegna più che al Nord. Le abilitazioni attribuite dall'ultima tornata sono state 24.294, il 43 per cento delle domande.
 
Gli investimenti in ricerca
 
In Italia la quota del Prodotto interno lordo dedicata alla spesa in "Ricerca e sviluppo" è rimasta stabile nell'ultimo quadriennio (2011-2014), su valori decisamente inferiori alla media Ue: con l'1,27 per cento sul Pil l'Italia è al 18° posto insieme alla Spagna tra i principali paesi Ocse (media 2,35 per cento). Nell'investimento in ricerca il Piemonte ha una percentuale sul Pil del 2,03 per cento (in crescita), la Val d'Aosta dello 0,40 (in declino). La quota di personale italiano impiegato in attività di ricerca rispetto al totale della forza lavoro è del 9,55 per mille contro il 12,39 dell'Ocse.
 
Sul piano dei finanziamenti pubblici, il Fondo ordinario degli enti e istituzioni di ricerca (Foe) ha raggiunto un massimo nel 2011 per scendere negli anni successivi. I finanziamenti dedicati ai Progetti di ricerca di interesse nazionale delle università (Prin) hanno toccato il picco  nel 2009, poi sono diminuiti. Negli ultimi anni i Prin sono stati banditi nel 2012 e alla fine del 2015. Anche le risorse destinate al Fondo per gli investimenti della ricerca di base (Firb) si sono attestate "ai livelli minimi". Il Fondo per i giovani Sir non è stato finanziato negli ultimi tre anni. "Rispetto al 2007-2012, il sistema della ricerca nazionale mostra comunque una maggiore capacità di partecipazione e un più alto tasso di successo nei progetti collaborativi di Horizon 2020".
 
Nel periodo 2011-2014 la quota italiana sul totale delle pubblicazioni mondiali si attesta complessivamente al 3,5 per cento. La produzione scientifica nazionale cresce a un tasso medio annuo del quattro, in lieve rallentamento. La produttività scientifica dei ricercatori italiani (pubblici e privati) è in media la più alta: 0,61 è infatti il rapporto tra pubblicazioni e ricercatori.
 
Meno del 5 per cento dei laureati italiani ha un'esperienza di almeno tre mesi di studio all'estero. Tra gli universitari regolari iscritti, tuttavia, la percentuale di italiani in uscita verso l'estero è raddoppiata nell'ultimo decennio. Solo il 16,5 per cento nel 2013-2014 ha fatto uno stage o un tirocinio in azienda. Contrariamente a quanto sostengono le associazioni studentesche, dall'analisi degli ultimi quattro anni accademici emerge una percentuale di corsi ad accesso programmato intorno al 20 per cento. Più basso di quanto fin qui denunciato. L'offerta formativa generale è caratterizzata da pochi corsi di studio in lingua inglese (245) e solo 310 corsi (il 7 per cento del totale) utilizzano parzialmente la lingua inglese.
 
 Il boom delle Accademie
 
Il settore delle Accademie artistiche ha conosciuto un forte sviluppo: il numero degli studenti è praticamente raddoppiato negli ultimi quindici anni, mantenendosi stabile nei settori tradizionali di decorazione, pittura, scultura e scenografia e consolidandosi rapidamente nelle sei nuove scuole istituite in aree innovative, tra cui design, restauro, nuove tecnologie, nuovi media, beni culturali. La presenza di studenti stranieri è pari all'11 per cento, valore superiore alla media delle università, "riflesso del prestigio di cui la formazione artistica e musicale italiana gode nel mondo". Il problema è che le Accademie artistiche sono ancora una via di mezzo - su un piano legislativo - tra scuole di secondaria superiore e università.

Conclude il secondo Rapporto Anvur: "Il nostro paese raggiungerà forse a fatica l'obiettivo che si è dato di un 26 per cento di giovani con titolo terziario, ma non certo quello del 40 per cento perseguito da altri paesi europei e rischierà di non conseguire l'obiettivo di 1,5 punti percentuali di Pil investiti in ricerca quando i partner europei si prefiggono il tre". A questo si aggiunge "l'abbandono della carriera da parte di molti dottori di ricerca e assegnisti, che non possono permettersi lunghi periodi di insicurezza retributiva, lo spostamento all'estero in misura maggiore di quanto sarebbe fisiologico senza un corrispondente flusso opposto dalle istituzioni estere, la sofferenza di molti giovani di valore, che vivono con difficoltà quelli che dovrebbero essere gli anni migliori della loro vita scientifica", ha detto Daniele Checchi, membro del Consiglio direttivo

Anvur e coordinatore del Rapporto. Già. "La ripartizione delle risorse solo negli ultimi due anni ha mostrato i primi timidi segnali di miglioramento, spesso più nella composizione qualitativa che nelle dimensioni assolute", ha concluso il presidente Anvur Andrea Graziosi.


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