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Università e prerogative del Parlamento fra tecnocrazia autoritaria e democrazia deliberativa

Fabio Matarazzo riflette acutamente su alcune implicazioni di fondo sottese alla recente sentenza con la quale la Consulta ha sancito l’illegittimità costituzionale del meccanismo del costo standard del finanziamento ordinario delle Università italiane.

10/06/2017
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ROARS

Fabio Matarazzo riflette acutamente su alcune implicazioni di fondo sottese alla recente sentenza con la quale la Consulta ha sancito l’illegittimità costituzionale del meccanismo del costo standard del finanziamento ordinario delle Università italiane. Lo fa agganciando l’analisi sulla sentenza in questione al vulnus che il meccanismo dei Ludi dipartimentali – attualmente al centro delle angosce di tanti Rettori e direttori di dipartimento delle Università statali italiane – infligge al valore dell’autonomia universitaria, concepito dall’art. 33, ultimo comma, Cost. in una dialettica necessaria fra Stato e singoli Atenei dotati di autonomia ordinamentale. In ultima analisi, la riflessione mette il dito sulla vera questione da cui dipende il futuro dell’Università italiana. Scegliere, cioè, se questo futuro dovrà continuare ad essere scandito da una visione tecnocratica della politica dell’Università. O se la riflessione politico-deliberativa, così innervata nella struttura originaria della nostra Carta costituzionale attraverso i processi tipici di una democrazia parlamentare, potrà tornare a dire la sua nella definizione delle scelte a venire. Quel che è certo è che, al punto di non ritorno in cui siamo arrivati, sciogliere questo nodo gordiano non sembra più procrastinabile. 

Una recentissima sentenza della Corte Costituzionale, la n. 104 dell’11 maggio 2017, ha puntualizzato un aspetto assai rilevante per la determinazione di una novità recente, decisiva per la definizione del finanziamento delle Università: la determinazione del costo standard degli studenti universitari. L’attuale pratica ministeriale non supera il vaglio di legittimità e deve essere urgentemente riconsiderata.

Il ragionamento della Corte, tuttavia, potrebbe non restare circoscritto a questa specifica, pur rilevante, vicenda; esso potrebbe avere ricadute su una serie di altri atti di rilievo posti in essere ultimamente, e così produrre a cascata effetti cruciali e dirompenti su molte applicazioni della c.d. riforma Gelmini.

Intanto esaminiamo più da vicino la vicenda e il suo esito.

La contestazione, originata da un coraggioso ricorso dell’Università di Macerata, riguardava alcuni commi dell’art. 5 della legge 240/2010 e gli articoli 8 e 10 del D.Lvo 29 marzo 2012, n. 49, relativo alla disciplina per la programmazione, il monitoraggio e la valutazione delle politiche di bilancio e di reclutamento degli atenei. I criteri direttivi dovevano essere definiti a partire da quell’articolo.

La Corte li sottolinea:

“introduzione del costo standard unitario di formazione per studente in corso, calcolato secondo indici commisurati alle diverse tipologie dei corsi di studio e ai differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali in cui opera l’università, cui collegare l’attribuzione all’ università di una percentuale della parte del fondo di finanziamento ordinario […….]; individuazione degli indici da utilizzare per la quantificazione del costo standard unitario di formazione per studente in corso, sentita l’ANVUR”.

Il D.Lvo con il quale il Governo ha attuato la delega, nell’art. 8, definisce il costo standard in questi termini:

“il costo di riferimento attribuito al singolo studente iscritto entro la durata normale del corso di studio, determinato in considerazione della tipologia di corso, delle dimensioni dell’ateneo e dei differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali in cui opera ciascuna università.”

La determinazione del costo è definita con decreto del Ministro, di concerto con quello dell’economia, sentita l’ANVUR. Le voci di costo sono così definite:

“a) attività didattiche e di ricerca, in termini di dotazione di personale docente e ricercatore destinato alla formazione dello studente; b) servizi didattici, organizzativi e strumentali, compresa la dotazione di personale tecnico amministrativo, finalizzati ad assicurare adeguati servizi di supporto alla formazione dello studente; c) dotazione infrastrutturale, di funzionamento e di gestione delle strutture didattiche, di ricerca e di servizio dei diversi ambiti disciplinari; d) ulteriori voci di costo finalizzate a qualificare gli standard di riferimento e commisurate alla tipologia degli ambiti disciplinari”.

L’art. 10 dello stesso decreto attribuisce poi al Ministro, con proprio decreto, il compito di individuare le percentuali del fondo di funzionamento da ripartire in relazione al costo standard.

Questo contesto normativo, a giudizio del TAR del Lazio che ha rimesso la questione alla Corte, si palesava illegittimo, per violazione dell’art. 76 della Costituzione, perché demandava per intero a decreti ministeriali l’individuazione degli indici in base ai quali determinare il costo standard, nonché le percentuali del finanziamento da ripartire in base a tale criterio. Si era – secondo il Tribunale remittente – in presenza di poteri ministeriali svincolati da adeguati criteri di indirizzo e come tali suscettibili di porsi in insanabile contrasto con gli articoli 33, 34 e 97 della Costituzione.

La Corte ha giudicato infondato il rilievo relativo alla legge 240 del 2010. Se è vero, infatti, che la legge delega non deve contenere enunciazioni troppo generali o inidonee a indirizzare l’attività normativa del legislatore delegato, nondimeno tale legge può essere abbastanza ampia – afferma la Consulta – da preservare un margine di discrezionalità entro il quale il Governo è abilitato a porre in essere un’attività di “riempimento normativo”, che è da ritenersi sempre, alla stregua dei numerosi precedenti giurisprudenziali richiamati, esercizio delegato di una funzione legislativa.

“I confini del potere legislativo delegato”, chiarisce la Corte, “risultano complessivamente dalla determinazione dell’oggetto e dei principi e criteri direttivi unitariamente considerati. A tal fine il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto, oltre che del dato testuale, di una lettura sistematica delle disposizioni che la prevedono, anche alla luce del contesto normativo nel quale essa si inserisce, nonché della ratio e delle finalità che la ispirano”. Entro questa cornice, dunque, deve essere valutata la discrezionalità del legislatore chiamato a sviluppare, e non soltanto a eseguire, le previsioni oggetto di delega.

Alla luce di questo argomentare, la Corte ritiene che la legge 240/2010, pur se carente di indicazioni atte a delineare efficacemente l’istituto del costo standard, non possa giudicarsi in contrasto con i principi costituzionali, se letta nel contesto complessivo di una normativa intesa a realizzare una riforma finalizzata a sviluppare principi tra i quali hanno rilievo la “valorizzazione della responsabilità, assieme all’autonomia delle università; la previsione dei poteri, in capo al Ministero competente, di dettare indirizzi strategici e, tramite l’ANVUR, di verificare e valutare i risultati conseguiti; il collegamento tra la distribuzione delle risorse pubbliche, da un lato, e dall’altro, il conseguimento degli indirizzi anzidetti e i risultati delle valutazioni eseguite”.

Sulla base di queste medesime premesse si giunge a conclusioni opposte passando ad analizzare il decreto delegato 49 del 2012. In questo caso la violazione dell’art. 76 si realizza eccome. Perché le disposizioni censurate ripetono pedissequamente i contenuti della delega, attribuendo di fatto ai decreti ministeriali (come tali definiti dalla volontà politica dell’esecutivo, bypassando la volontà parlamentare) la determinazione degli indici mediante cui calcolare il costo degli studenti. Stesso rilievo vale anche per la individuazione della percentuale del fondo da ripartire con questo criterio.

A conforto di questa conclusione, la Corte ripercorre l’iter di approvazione del testo delegato. Si ricorda che la VII commissione del Senato, dopo aver rilevato criticamente che non era stata data attuazione al principio di delega, aveva espresso parere favorevole allo schema di decreto, ponendo tuttavia un’esplicita condizione:

“all’articolo 8, comma 1, vengano espressamente individuati, sentita l’ANVUR, gli indici da utilizzare per la quantificazione del costo standard unitario di formazione per studente in corso, quali: il costo delle attività didattiche e di ricerca, in termini di dotazione di personale docente e ricercatore destinato alla formazione dello studente; il costo dei servizi didattici, organizzativi e strumentali, compresa la dotazione di personale tecnico-amministrativo, finalizzati ad assicurare adeguato supporto alla formazione dello studente; il costo relativo alla dotazione infrastrutturale, di funzionamento e di gestione delle strutture didattiche, di ricerca e di servizio dei diversi ambiti disciplinari; ulteriori voci di costo finalizzate e qualificare gli standard di riferimento e commisurate alla tipologia degli ambiti disciplinari”.

Osserva la Consulta che la versione finale del decreto legislativo si è limitata a riprendere le esemplificazioni suggerite dalla Commissione senatoriale, elencate quali voci di costo da considerare nel successivo decreto ministeriale. La Corte – anche alla luce delle dinamiche procedimentali che hanno condotto al decreto del 9 dicembre 2014, n. 893 che ha concretamente determinato il costo – sottolinea come il Governo, nell’esercizio della delega, non abbia aggiunto alcunché ai contenuti dei principi e criteri direttivi stabiliti nella legge 240.

Manca, in altri termini,

“una più precisa individuazione delle spese da includere nel costo standard, nonché i criteri per la ponderazione di ciascuna voce”.

Considerazioni analoghe valgono anche per la delega che prescriveva di collegare al costo standard una quota del finanziamento diversa da quella cosiddetta premiale. Il decreto delegato ha eluso tale indicazione, che il MIUR ha invece deciso di rinviare a un proprio successivo decreto ministeriale emanato con validità almeno triennale nel quadro dell’attività di indirizzo e programmazione del sistema universitario.

Alla luce di queste constatazioni, la Corte si chiede se il rinvio di aspetti qualificanti della delega ad atti ministeriali possa configurare una forma di sub-delega, incompatibile con l’art. 76 della Costituzione.

Con riguardo proprio all’ordinamento universitario, la Consulta ricorda di aver da tempo posto in luce che il rinvio a fonti e atti amministrativi non solo non è vietato, ma deve considerarsi fisiologico.

“Nulla nella Costituzione […..] vieta alla legge di affidare l’integrazione e lo sviluppo dei propri contenuti sostanziali ad un’attività normativa secondaria di organi statali quando si versi in aspetti della materia che richiedono determinazioni bensì unitarie, e quindi non rientranti nelle autonome responsabilità dei singoli atenei, ma anche tali da dover essere conformate a circostanze e possibilità materiali varie e variabili, e quindi non facilmente regolabili in concreto secondo generali e stabili previsioni legislative”.

Nel caso di specie, però, il decreto legislativo non ha affidato ad atti successivi l’esecuzione di scelte ben delineate nelle loro linee fondamentali.

“Ha, invece, lasciato indeterminati aspetti essenziali della nuova disciplina, dislocando di fatto l’esercizio della funzione normativa del Governo, nella sua collegialità, ai singoli Ministri competenti, e declassando la relativa disciplina a livello di fonti sub-legislative con tutte le conseguenze, anche di natura giurisdizionale, che una tale ricollocazione comporta sul piano ordinamentale”.

Devolvere le scelte sostanziali ad atti ministeriali, che, come tali, hanno natura amministrativa e non legislativa a giudizio della Corte comporta un’indebita appropriazione da parte del Governo della responsabilità politica che compete al Parlamento e l’esercizio effettivo della delega oltre il termine previsto.

Una responsabilità politica che, esemplifica la Corte, avrebbe dovuto esprimersi nelle decisioni in merito al ritmo della transizione dal criterio della spesa storica a quello dei costi standard o in quelle relative alla identificazione e al peso delle differenze tra i “contesti economici, territoriali e infrastrutturali” in cui operano le varie università.

Da queste considerazioni discende l’incostituzionalità degli artt. 8 e 10 del d.lgs. 49 del 2012. Una sanzione determinata da vizi dell’esercizio del potere legislativo delegato, che non preclude ulteriori interventi del Parlamento e del Governo sui quali, sottolineano i giudici,

“incombe la responsabilità di assicurare, con modalità conformi alla Costituzione, la continuità e l’integrale distribuzione dei finanziamenti per le università statali, indispensabili per l’effettività dei principi e dei diritti consacrati negli artt. 33 e 34 Cost.”.

Gli effetti e le conseguenze di questa pronuncia della Corte non sembrano però così circoscritti, né pare possano trovare una rapida soluzione effettuando in fretta e furia una sostituzione di atti ministeriali con atti parlamentari dal contenuto sostanzialmente identico.

E’ vero che il Governo è ormai da tempo arbitro e protagonista dell’attività parlamentare e che per tale motivo  potrebbe sembrare trascurabile, se non del tutto inutile, la ricerca di un apporto dialettico assembleare per scelte che appaiono difficili e delicate anche in considerazione degli aspetti tecnici che coinvolgono.

Ma è altrettanto vero che il Giudice costituzionale, confermando la validità e il valore della gerarchia delle fonti e, in ultima analisi, l’importanza della distinzione dei poteri che dovrebbe caratterizzare ogni Stato di diritto post illuministico anche nell’Italia del 2017, ha voluto con forza richiamare l’attenzione sul fatto che soluzioni di particolare importanza e incisività per i temi affrontati, non siano esaminate e decise in ambiti ristretti, nel segreto dei corridoi ministeriali e al di fuori di una trasparente discussione pubblica.

Ci vuole – ha voluto dire fra le righe la Consulta – un modo di decidere che, nella diversità delle opinioni e dei suggerimenti, restituisca all’esito finale della decisione il pregio dell’opzione (o della ponderazione) politica, di per sé attenta e sensibile a tutti gli elementi della vicenda in discussione, che sappia mettere la pubblica opinione in condizione di seguire e giudicare ciò che viene deciso, per condividere, o non, tutte le ragioni – appunto POLITICHE – della soluzione adottata.

Basta, in altre parole, con l’uso strategico della tecnica (il numerino, il coefficiente, l’algoritmo) perseguito con mano esperta per dissimulare il senso di precise opzioni politiche, che per tal via vengono attuate tecnocraticamente, senza render conto ai soggetti investiti dalle conseguenze della scelta delle ragioni politiche delle scelte attuate e senza, quindi, assumersi a viso aperto la responsabilità POLITICA delle scelte così adottate.

Un indirizzo da condividere e perseguire e di cui la sentenza di cui abbiamo discusso può rappresentare un esempio davvero paradigmatico, suscettibile di ulteriori e interessanti sviluppi.

Possono essere lette e considerate alla luce di questi principi le linee-guida dell’ANVUR per l’attuazione di diversi e impegnativi capitoli della più recente dinamica universitaria.

Le implicazioni politiche di alcuni di essi sono evidenti e sarà lecito chiedersi se, anche in questi casi, lo strumento adottato sia opportuno e legittimo e se l’abdicazione dalle scelte di governo possa ritenersi coerente con i dettami costituzionali. Sono interrogativi che meritano risposte appropriate e compiutamente motivate che, per questa ragione, vanno rinviate ad altra sede.

Qui, tuttavia, è utile soffermarsi subito sulla vicenda, contestuale alla sentenza che abbiamo commentato, dei c.d. DIPARTIMENTI DI ECCELLENZA, quelli che si stanno disputando gli ormai famigerati LUDI DIPARTIMENTALI.

Questa manovra – inserita dall’esecutivo con un vero e proprio colpo di mano legislativo all’interno dell’ultima legge di stabilità, senza che il Parlamento avesse modo di discutere adeguatamente le ragioni e le cruciali conseguenze del provvedimento adottato – identifica uno dei cambiamenti più significativi e potenzialmente stravolgenti dell’assetto tradizionale e consolidato delle nostre Università.

Essa si pone, a mio giudizio, in aperta contraddizione con l’autonomia ordinamentale riconosciuta agli atenei dalla Costituzione.

La normativa che costituisce l’origine di questo evento è già stata oggetto di attenzione e discussione da più parti e non è il caso di ricordarla in dettaglio.

La legge di stabilità 2016 ha inopinatamente previsto una sorta di scelta comparativa e competitiva, non tanto tra gli atenei, ma tra i loro dipartimenti, per selezionare e privilegiare all’interno del sistema universitario statale, 180 dipartimenti, scelti in una platea di 350 candidabili secondo i risultati dell’ultima valutazione della ricerca effettuata dai loro docenti, con l’obiettivo di attribuire loro somme cospicue per la loro attività presente e futura, ponendoli così in posizione preminente non solo all’interno dei rispettivi atenei, ma dell’intero contesto accademico.

Riservare loro 271 milioni di euro l’anno farà la differenza rispetto alle altre strutture e creerà una distanza incolmabile tra chi potrà accomodarsi a una tavola riccamente imbandita e chi dovrà ferocemente contendersi le briciole cadute dal tavolo. Briciole del tutto insufficienti a garantire prospettive di sviluppo, che, proprio in virtù delle eventuali lacune registrate, dovrebbero trovare ragione di essere promosse da parte dei poteri pubblici per realizzare una equilibrata distribuzione di risorse e di opportunità per tutta l’organizzazione universitaria operante sul territorio italiano.

La prospettiva, forse non ipotizzata, ma certamente probabile, potrà essere la polverizzazione del concetto di’”universitas studiorum” che finora ha sempre caratterizzato i nostri atenei. L’enucleazione di singole preminenti strutture, con passo e capacità ben più potenti della restante palude, potrebbe ragionevolmente indurre tali dipartimenti a connettersi con altri dipartimenti di pari efficienza, coerenti per attività scientifica e convergenti per dinamiche progettuali, rompendo così fragili equilibri di settori scientifici e disciplinari, realizzati con scelte difficili e, a volte, discusse e contrastate, ma pur sempre autonomamente e consapevolmente deliberate dagli organi di governo, nel quadro di istanze giustamente perequative fra saperi spesso caratterizzati da una diversa capacità di attrarre finanziamenti esterni a cagione della specificità del proprio ambito tematico.

L’elenco di 352 dipartimenti ammessi alla selezione è stato reso pubblico in questi giorni, unitamente a una nota metodologica, che cerca di offrire ragione della scelta effettuata e della preliminare graduatoria che ne risulta. Si è registrata anche una lettera di accompagnamento, che il Presidente di ANVUR ha rivolto con toni autoritari ai rettori italiani.

Non è questa l’occasione per addentrarci nell’analisi puntuale dell’indicatore utilizzato dall’ANVUR. Alcuni l’hanno cominciato a fare, altri senz’altro continueranno a farlo, e sarà interessante seguire lo sviluppo del dibattito in proposito.

Preme piuttosto qui verificare se, anche in questo intervento ministeriale così determinante per il futuro delle Università, non vi sia stata, alla luce dell’insegnamento ora impartito dalla Consulta, una sottovalutazione dell’essenzialità della valutazione e della necessità di  una ponderazione politica nei confronti dell’automatismo di formule matematiche, sulla cui correttezza ed efficacia si pronunceranno gli addetti ai lavori. Il modo in cui sono concepite e applicate tali formule appare incompatibile con la doverosa responsabilità di governo che deve presiedere all’adozione di soluzioni così decisive per la composizione e il futuro sistemico del nostro sistema universitario.

I dipartimenti c.d. di eccellenza saranno individuati da una commissione composta da sette membri, variamente designati e nominati dal Ministro. Posto in essere quest’atto, la restante operazione, di evidente sensibilità politica, procede attraveso un percorso tecnico amministrativo delegato ad ANVUR e Commissione.

E’ il Ministero che chiede all’ANVUR, sulla base dei risultati ottenuti nell’ultima VQR dai docenti di ciascun dipartimento la definizione del calcolo di un apposito «Indicatore standardizzato della performance dipartimentale»  (ISPD),  destinato a considerare la posizione dei dipartimenti nella distribuzione  nazionale della VQR, nell’ambito dei rispettivi settori scientifico-disciplinari, e l’attribuzione a ciascuno dei  dipartimenti del relativo ISPD.

Il Ministero, quindi, redige la graduatoria dei dipartimenti in ordine decrescente rispetto all’ISPD attribuito al singolo dipartimento. Le università statali cui afferiscono i dipartimenti collocati nelle prime 350 posizioni della graduatoria possono presentare domanda diretta a ottenere per ognuno di essi il finanziamento medio di 1.350.000 euro annui.

Il numero massimo di domande per i dipartimenti afferenti a un medesimo ateneo è di 15. Ove siano superiori, l’ateneo opera una selezione delle domande, motivando  la  scelta  in ragione dell’ISPD attribuito  al  singolo dipartimento,  nonché di ulteriori criteri,  la cui definizione è demandata all’autonomia del singolo ateneo.

Si tratta dell’unica ipotesi, invero eccezionale e largamente marginale, nella quale può esercitarsi una limitata capacità di governo degli organi accademici di ateneo.

La domanda contiene un progetto dipartimentale di sviluppo di durata quinquennale concernente:

1) gli obiettivi scientifici;

2) l’utilizzo del finanziamento per il reclutamento del personale docente, ovvero per il reclutamento di personale tecnico  e amministrativo;

3) gli interventi  premiali;

4) l’investimento  in  infrastrutture  per  la  ricerca;

5) lo  svolgimento  di  attività   didattiche   di   elevata qualificazione;

6) la presenza di eventuali cofinanziamenti attribuiti al progetto dipartimentale (criterio davvero diabolico, nella misura in cui il cofinanziamento, così muscolarmente esibito dal progetto, finisce per destinare ulteriori risorse dal bilancio dell’ateneo al SuperDipartimento gratificato dal sigillo dell’eccellenza e quindi già superpremiato, sottraendo ulteriori risorse ai paria, ovvero i poveri, puniti e bistrattati dipartimenti NON eccellenti del medesimo ateneo.

Come si può vedere, siamo dinanzi all’essenza delle scelte di governo di una Università, le quali andrebbero considerate nel complesso della strategia dell’ateneo  interessato e che dovrebbero, semmai, essere sottoposte ad un vaglio di merito specifico, non disgiunto da una necessaria ponderazione di natura politico-distributiva. Scelte che non possono essere valutate dalla Commissione tecnica soltanto per punteggi numerici predefiniti, i quali ontologicamente non tengono in alcun conto la complessiva programmazione strategica dell’ateneo.

Come era stato notato fin dalla prima ora, si tocca qui con mano il vulnus che la premialità disegnata da questo strumento normativo assesta irrimediabilmente all’autonomia che la Costituzione (art. 33, ultimo comma) riconosce in capo alle singole “istituzioni di alta cultura, università ed accademie”.

I singoli atenei, pur avendo sulla carta il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”, vedono così svuotarsi di significato concreto la propria autonomia nella misura in cui essi finiscono per essere espropriati della possibilità di esercitare la propria autonomia ordinamentale per decidere le proprie strategie di crescita e sviluppo, in uno con le proprie istanze di perequazione interna, perché a tali essenziali e delicatissime scelte provvede – omisso medio e d’imperio – la mano ministeriale, indossando il guanto opaco dell’algoritmo che decide la consistenza dell’ISPD.

E’ sempre rimasto implicito, nel discorso costituzionale svoltosi nella vigenza dell’attuale art. 33 Cost., che spettasse agli atenei – attraverso le procedure e le istituzioni in cui si articola ogni singolo ateneo, dettate da regole che, appunto, lo Stato riconosce in quanto espressione del potere di ciascuna università di darsi ordinamenti autonomi – consentire a ciascun componente della comunità accademica di fare libera ricerca, essendo messo nella condizione di farlo in base alla gestione autonoma (svolta dagli atenei) del trasferimento di risorse che lo Stato strutturalmente destina, premialmente o non, a ciascuna Università statale.

Gli atenei statali in quest’ottica hanno sempre potuto rivendicare la loro funzione di centro unitario di riferimento per il governo e lo sviluppo del sapere e della ricerca accademica, essendo capaci in tale veste di esercitare una funzione di riequilibrio, nel segno del più profondo significato della libertà accademica, fra i campi del sapere presenti in seno a ciascun singolo ateneo, nel quadro dell’allocazione delle risorse che lo Stato attribuisce, appunto, ai “suoi” atenei [così Izzo, L’autonomia dell’Università ai tempi della riforma costituzionale, ROARS, 22 novembre 2016].

Il decreto dell’11 maggio del Ministro se ne infischia bellamente di queste considerazioni.

Esso prevede, infatti, all’art. 3 che la Commissione proceda alla valutazione, tenendo conto di una serie di elementi che attengono esclusivamente al singolo dipartimento, con la precisazione che quel consesso provveda, entro trenta giorni, a specificare “ le modalità di attribuzione  dei punteggi e i criteri di valutazione delle domande”.

Un’ultima osservazione ci sembra utile ai fini del nostro discorso: il comma 328 della legge di stabilità sancisce testualmente:

[…] “il   Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca trasferisce alle università statali cui appartengono  i dipartimenti il relativo finanziamento. L’università è vincolata all’utilizzo di queste risorse a favore dei dipartimenti finanziati”.

Col che l’autonomia di bilancio dell’ateneo, fatalmente correlata alla garanzia di cui all’ultimo comma dell’art. 33 Cost., viene definitivamente irrisa, per essere inchiodata prospetticamente a un beffardo destino di inconsistenza effettuale.

Quanto tutto ciò sia compatibile o coerente con i principi costituzionali ai quali ha fatto giustamente riferimento la pronuncia della Corte che abbiamo commentato, non sta certo a noi dirlo, ma può essere opportuno, comunque, sollecitare una riflessione su questi argomenti.

Ineludibile e assai urgente – si direbbe impellente – appare allora una chiara definizione dell’idea di fondo che deve caratterizzare lo sviluppo di ciò che i Costituenti vollero riconoscere, promuovere e proteggere, formulando l’art. 33 della Costituzione nella sua lungimirante e assai meditata interezza.

Se cioè sia giunto il momento di rassegnarsi all’idea che si è ormai realizzato un silenzioso sovvertimento di quell’idea originaria, ottenuto mascherando la transizione con scelte di chiara impronta tecnocratica, sfornita di adeguata legittimazione democratica.

O se residuino margini per far vivere quelle idee nel quadro di una rinnovata e vieppiù necessaria idea di democrazia deliberativa, aperta a quelli che sono gli ideali fondanti di una repubblica parlamentare.

Il sospetto è che questa impronta tecnocratica celi l’incapacità di governare problemi complessi e delicati e si combini con la tentazione di privilegiare mediante essa precise visioni del mondo, sottraendosi al confronto politico che dovrebbe sempre caratterizzare la vita e le scelte di una democrazia parlamentare.

Un sospetto che forse solo la Consulta, se adeguatamente sollecitata in merito alle scelte legislative operate per attuare i ludi dipartimentali, potrà fugare, sol che si consideri l’incertezza e la frammentarietà dell’attuale clima politico.

La sentenza 104/2017 sembra offrire, sotto questo profilo, indicazioni di fondo assai importanti. Vedremo se dovranno essere recepite ancora una volta in via giudiziaria.