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«Atenei troppo piccoli, non sanno cogliere i cambiamenti del lavoro»

Soffriamo una cronica mancanza di fondi e la burocrazia spesso impedisce di spenderli»: così la rettrice dell’università Bicocca di Milano, Cristina Messa

11/09/2016
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Corriere della sera

Gianna Fregonara

Pochi immatricolati, laureati che fuggono attratti dal lavoro in altri Paesi, un mercato interno dove c’è poca ricerca e meno bisogno di competenze elevate. Professoressa Cristina Messa, dal 2013 rettore dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, come si è arrivati fin qui? «È stata una combinazione di cause. Una di queste è la cronica mancanza di fiducia dei giovani nelle istituzioni, compresa l’Università. Si è fatta strada l’idea in certi settori che avere la laurea non serva a trovare un’occupazione consona al proprio sforzo e alle proprie speranze».

È davvero così, è necessaria un’autocritica da parte dell’Università?
«Non è così per tutti. Secondo i dati di Almalaurea a cinque anni dal diploma universitario praticamente tutti hanno un’occupazione che è meglio pagata di quella di chi ha smesso dopo le scuole superiori. Certo è però che l’offerta formativa ultimamente non ha colto il cambiamento del sistema economico e in generale della società».

Troppi laureati in lettere e troppo pochi in materie scientifiche, che per di più fuggono all’estero?
«Molti corsi stanno cambiando ma troppo lentamente. Oggi le più richieste sono le competenze trasversali che vanno dalla comunicazione all’Informatica e alla tecnologia, noi fatichiamo ad adeguarci».

La fuga dalle Università del Sud è un fenomeno allarmante, il Nord soffre meno, ma chi può sceglie di partire anche per studiare. Nelle classifiche le Università italiane arrancano.
«Non c’è una Harvard italiana, ma tante eccellenze sparse nelle varie università, che spesso sono anche piccole. Così nessun Ateneo o quasi riesce a emergere. Inutile dire che non riusciamo se non raramente a fare rete, ognuno va per conto suo e perora la propria causa. L’Università da noi funzionava quando era un cenacolo di pochi studiosi, di un’élite che faceva vera scienza, oggi che la domanda è diversa, che la società è cambiata e che la sfida è aprire più possibile il sapere, stiamo perdendo la partita».

Come si ferma la perdita di studenti?
«È molto importante il lavoro di valutazione fatto dall’Anvur in questi anni che permette di avere dati oggettivi sul valore delle singole università. Più in generale credo che il problema non sia che i nostri ragazzi vanno all’estero. La circolazione di uomini e idee è fondamentale. Ma non riusciamo ad attrarre stranieri, a causa anche della lingua e della scarsa attenzione fino a poco tempo fa all’internazionalizzazione. Si aggiunga che il nostro sistema economico fatto di piccole e medie imprese che non investono in ricerca non riesce ad assorbire figure di alta specializzazione».

Che cosa suggerisce lei dal suo posto di rettore a Milano per invertire la tendenza?
«Dovremmo risolvere tre problemi enormi: la mancanza di fondi cronica dal 2008, che impedisce di ampliare l’offerta: non abbiamo abbastanza corsi né professori, in più il fatto che i finanziamenti siano annuali non ci permette di programmare nulla. C’è poi l’eccesso di burocrazia nella gestione dei fondi che ci impedisce spesso di usarli. Aggiungo la scarsa attenzione del governo a Bruxelles per poter usare i fondi europei e partecipare ai progetti Ue. Oggi in Europa si sta discutendo che cosa sarà l’Università dopo il 2020, È lì che l’Italia dovrebbe fare lobbying».