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Atenei, in Italia e in Europa adesso dobbiamo fare di più

Pandemia L’irrazionalità di Trump e Johnson ci sta offrendo un’occasione straordinaria

09/07/2020
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Corriere della sera

di Francesco Billari e Gianmario Verona

L’unione virtuosa tra creazione di nuova conoscenza (ricerca) e trasmissione della stessa alle nuove generazioni (didattica) è la ricetta, semplice, che rende un’università competitiva a livello internazionale. La didattica da sola non basta più: i professori delle università competitive devono essere ricercatori e docenti allo stesso tempo. Nel mondo interconnesso, l’accesso alla conoscenza fondamentale avverrà sempre più attraverso piattaforme digitali come Coursera, Edex, Emeritus, o le migliori università americane che stanno sviluppando progetti per rendere accessibili i loro corsi a milioni di persone che non possono permettersi di andare nei loro campus. A parte queste disruption, la didattica verrà sempre più spesso erogata in modo «ibrido», mischiando lezioni in remoto per la trasmissione di conoscenza elementare con lezioni in classe più analitiche, a gruppi di studenti più ridotti. Proprio come a causa della pandemia ci stiamo accingendo a fare in gran parte degli atenei italiani dal prossimo settembre.

Per queste ragioni mentre gli atenei stanno vivendo una delle stagioni più complesse e sono impegnati nella ricerca di una didattica «normale», bisogna ancora più di prima mettere al centro la produzione di conoscenza. Dobbiamo cioè far sì che la ricerca diventi centrale per l’università anche nel nostro Paese, tanto quanto lo è da sempre la didattica. Per essere all’altezza delle nostre, giuste, aspirazioni, l’università italiana non può accontentarsi di erogare didattica, diffondendo localmente conoscenza prodotta altrove. L’ecosistema dell’università italiana, pur con diversità e specializzazioni, deve dimostrare al mondo di sapere produrre conoscenza utile e originale.

Molto bene, quindi, che nell’ambito del decreto Rilancio il ministro Manfredi sia riuscito a convincere il governo a stanziare fondi per 82 milioni di euro per ridurre il digital divide e potenziare la didattica. Ottimo anche che si pensi a 4.000 nuovi ricercatori in tenure track (seppure all’italiana), potenziali creatori di conoscenza di frontiera oltre che docenti per le nuove generazioni. Ma dobbiamo fare di più. Italia ed Europa devono riuscire ad attrarre i molti scienziati tentati di lasciare Stati Uniti e Gran Bretagna.

Già la Brexit aveva dato un primo segnale di opportunità per il vecchio continente. Ora Trump, a un malcelato atteggiamento di sfiducia nei confronti della scienza, palesato dai tanti sguardi di disapprovazione verso l’operato del professor Fauci, ha unito una stretta ai visti per i ricercatori. L’Italia e l’Europa possono approfittarne, riacquistando la leadership persa e invertendo la rotta rispetto al passato. Basta guardare, per esempio, al numero di premi Nobel. All’inizio del ventesimo secolo la Germania dominava nella ricerca di eccellenza. La fuga delle migliori menti dall’Olocausto e la guerra distrussero il primato tedesco, e gli Stati Uniti passarono definitivamente al primo posto per numero di Nobel vinti nel 1956. La Gran Bretagna sorpassò la Germania nel 1974, consolidando progressivamente un secondo posto che ha spinto negli ultimi trent’anni tante ragazze e ragazzi ambiziosi a tentare l’ingresso a Oxbridge e altri college inglesi di prestigio. Oggi l’occasione è quella di un ritorno alle origini.

L’Europa, finanziandola, dovrebbe prendere la leadership di questa iniziativa di attrazione dei cervelli. Finora il messaggio Ue è stato ambiguo: da un lato i forti incentivi alla ricerca scientifica su medicina e sfida ambientale nell’ambito del Next Generation Eu Fund, dall’altro il rinvio degli attraenti bandi Erc al 2021. L’Italia deve però giocare la sua partita ed essere proattiva. Basterebbe, per esempio, adottare il «Piano Colao» nei capitoli 75-78 che forniscono una serie di soluzioni coraggiose per la creazione di poli di eccellenza scientifica internazionale e il supporto ai ricercatori. Più in generale, l’aspirazione a guidare la frontiera della conoscenza per gli anni a venire non può prescindere dall’invertire il saldo negativo nella mobilità dei «cervelli» (che eccellono in ricerca più che in sola didattica) che ha storicamente afflitto il sistema accademico italiano. Per farlo, occorre fornire a ricercatrici e ricercatori le infrastrutture adeguate, sburocratizzando i processi e rendendo internazionale il sistema attuale dei concorsi universitari, che rimane incomprensibile agli occhi dei più e che sembra diventato normale per chi lo vive quotidianamente in una sorta di «sindrome di Stoccolma». Aspirare al brain gain significa anche pensare ai progetti di vita dei talenti, rafforzando anzitutto i fondamentali incentivi fiscali di lungo periodo, già presenti in Italia, ma che devono essere consolidati nel lungo termine per evitare improvvisi cambi di rotta che caratterizzano spesso la politica del Paese. Evitare, poi, l’errore britannico di dare la sensazione che il «cervello» sia benvenuto, ma non la sua famiglia, agevolando la combinazione tra lavoro di ricerca e docenza e ragionando in termini di progetti familiari. Da ultimo, è fondamentale volerlo. E questa volontà non è scontata, data l’autoreferenzialità del sistema accademico, spesso teso a riprodursi e a diffidare di quella circolazione dei talenti che ha fornito la linfa vitale alle accademie statunitensi e britannica.

La pandemia, sia per l’accelerazione nell’impiego degli strumenti digitali, sia per l’irrazionalità di Trump e Johnson, sta contribuendo a ridisegnare la geografia dell’università e sta offrendo a Europa e Italia un’occasione straordinaria. Possiamo far finta di non vederla o non volere incomprensibilmente coglierla, ma in un mondo globale si muoverà qualcun altro. A quel punto ci rimarrà solo il rimpianto e lo sguardo verso il nostro glorioso passato.

Prorettore Risorse umane

e Rettore

dell’Università Bocconi


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