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Ancora uno sfregio all’Università

Di Carlo Galli

02/11/2016
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da ragionipolitiche.wordpress.com

Questo presidente del Consiglio proprio non conosce e non ama l’Università. Il punto è che il suo rapporto con la politica non è mediato dalla cultura, ma dalla gestione funambolica della contingenza e dalle esigenze dei poteri economici che lo sorreggono. Nel caso dell’Università, specificamente, Renzi si colloca in continuità con la logica della legge Gelmini, del resto condivisa dal Pd fino quasi al momento dell’ingresso in parlamento: doveva essere una «riforma condivisa», insomma, e tale è stata, ed ancora è, nelle sue linee generali. Di quella legge Renzi sposa infatti l’assunto base che l’Università deve servire al sistema economico, ovvero che non deve avere autonomia e deve articolarsi in una maggioranza di Atenei mediocri (d’insegnamento, come pudicamente si dice) e in poche isole felici di autoproclamata «eccellenza», ben finanziate e del tutto interne al sistema industriale italiano e internazionale.

A ciò si aggiunga lo specifico renziano, ovvero il talento per lo spot e l’insofferenza per i corpi intermedi: questi ultimi sono gli Atenei, i professori e in generale gli ordinamenti, le istituzioni, e anche i sistemi concorsuali. Per quanto questi possano essere fallaci, sono il modo con cui un corpo di studiosi coopta, con procedure di valutazione scientifica, i propri membri. E chi altri deve decidere sull’idoneità di qualcuno a essere fisico, giurista, filosofo se non i fisici, i giuristi, i filosofi, secondo regole note? Il loro giudizio sarà anche viziato da faide e nepotismi, ma non tanto da impedire che la ricerca italiana sia assai ben quotata nel mondo, soprattutto a fronte degli investimenti scarsi e della defatigante attività didattica e burocratica a cui i professori e i ricercatori sono costretti – con stipendi ridicoli, e per di più bloccati da sette anni –.

Dire che sono i concorsi il male dell’università italiana è un depistaggio cognitivo analogo a quello che vuole che il male della politica italiana stia nella Costituzione da riformare, o nelle indennità dei parlamentari da abbassare, e non nella crisi dei partiti e nello spostamento del baricentro della politica dal legislativo all’esecutivo, e dal territorio nazionale a dimensioni extra-territoriali e sovranazionali. Depistaggi che sono altrettanti drappi sventolati davanti all’opinione pubblica, e che hanno come obiettivo il rafforzamento del governo e l’accentramento del potere a danno dei poteri costituiti e del loro normale funzionamento. Insomma, l’ideologia dell’eccezionalità contro la regola; dell’uomo solo al comando che porta in salvo la barca della repubblica; della fantasia e della giovinezza che trionfano sul vecchiume burocratico e sulla corruzione dei baroni, casta ancora più spregevole dei politici.

È su questi presupposti ideologici che nascono le cinquecento «cattedre Natta»; un provvedimento che comporta che siano messi non in cale, e anzi vengano valorizzati, lo sfregio al corpo dei professori e la rottura dell’ordinamento; e che non si arretri davanti al fatto che con questo provvedimento – che vede i docenti «eccellenti», e superpagati, nominati da commissioni di nomina politica, cioè istituite motu proprio dal Miur e da Palazzo Chigi, e che lavorano su parametri determinati dalla politica – si ripercorra la via del fascismo, che inventò la chiamata «per chiara fama» per mostrare la superiorità del regime sulle Università, peraltro già piegate ai suoi voleri dal giuramento imposto a tutti gli ordinari.

Ma oltre che sull’ideologia renziana, sulle solide esigenze e sulle precise richieste di Confindustria, il provvedimento si basa anche su assunti dilettanteschi. Si ipotizza che gli studiosi stranieri, che presiederanno le commissioni, siano privi di pregiudizi e più autorevoli degli italiani; e si vuole far credere che cinquecento professori, in un sistema non funzionante di cinquantamila addetti, possano cambiare qualcosa, oltre a costituire un piccolo «esercito di riserva» di obbedienza governativa, collocato nelle posizioni chiave del sistema – peraltro tutt’altro che riottoso, nel suo complesso –.

Già oggi esistono istituti giuridici che consentono il «rientro dei cervelli», dietro un giudizio delle Università, com’è ovvio; ma sono sottofinanziati. Ed è proprio il sottofinanziamento complessivo del sistema universitario che costringe i giovani ad espatriare, perché non si possono bandire per loro posizioni sufficienti; e a invertire il trend non basteranno né i milioni in più che la legge finanziaria stanzia ora per la prima volta dopo anni di tagli selvaggi, né questi cinquecento posti extra ordinem, né le risorse che i docenti italiani lasceranno libere ricoprendoli – saranno infatti in gran parte italiani, già assunti, a concorrere; le retribuzioni, benché gonfiate, non sono attraenti per studiosi stranieri affermati, e ancor meno lo sono le condizioni di lavoro –. Per ovviare al sottofinanziamento sono necessari soldi, evidentemente – e a questo proposito si pensi alle migliaia di posti da ricercatore che si potrebbero bandire con il finanziamento delle cattedre Natta –; ma ancor più è necessaria una cultura politica, oggi assente, che voglia investire nell’avanzamento e nella diffusione del sapere critico per lo sviluppo democratico del Paese, e che veda nell’Università la magistratura scientifica della nazione e non il centro studi di Confindustria; una cultura politica non dello spot ma dei tempi lunghi, non dell’intervento miracolistico ma della costruzione di istituzioni durature.

Ed è necessaria anche una presa di coscienza del mondo accademico, che non si lasci incantare da qualche beneficio marginale e da qualche promessa, e che anzi da questa vicenda tragga l’energia per rivendicare la propria autonomia, centralità e dignità; un buon modo sarebbe di delegittimare il provvedimento rifiutando di essere nominati nelle commissioni d’esame. Ma questo dovrebbe essere solo l’inizio di un percorso critico, che dovrebbe estendersi anche all’ideologia della valutazione e all’Anvur nell’attuale forma e composizione. Il lavoro da fare è enorme per un ceto docente che in passato si è crogiolato in una infondata percezione di intoccabilità, che più di recente ha subito, in totale passività, l’attacco neoliberista alla cultura e alle proprie condizioni di vita e di lavoro, e che oggi viene screditato da un atto normativo che individua la via della rinascita dell’Università italiana in un percorso che dovrebbe avvenire fuori e contro di essa.


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