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Abolizione del “Valore legale” del titolo: di che si sta parlando?

Il c.d. “valore legale” della laurea consiste soltanto nelle norme che ne richiedono il possesso per chi intenda accedere agli Ordini delle professioni regolamentate, tramite l’esame di Stato, ovvero ai livelli alti del pubblico impiego

04/10/2015
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ROARS

Giunio Luzzatto

Nelle scorse settimane, vari media “generalisti” hanno rilanciato il tema della cosiddetta abolizione del valore legale del titolo di studio (in particolare, ma non solo, della laurea; sono in discussione, analogamente, gli effetti dell’esame di Stato finale della scuola secondaria, la ex-”maturità”); ciò anche in relazione a un emendamento, poi ritirato, presentato nel corso del dibattito parlamentare sulla Pubblica Amministrazione. Sia i sostenitori dell’abolizione, sia molti di coloro che si scagliano contro tale ipotesi non si rendono conto che stanno parlando del nulla.

Al proposito, Roars (https://www.roars.it/online/carla-barbati-sul-valore-legale-del-titolo-di-studio/) ha già contribuito alla diffusione di una intervista (a “Il Sussidiario”, 24/04/2012) nella quale Carla Barbati affermava che “parlare di abolizione del valore legale del titolo di studio di per sé è un non-problema, perché quell’espressione si riferisce ad un oggetto non definito e non identificabile: non esistono … leggi che chiaramente conferiscano questo supposto valore legale”. Ciò risulta, del resto, ampiamente documentato e discusso nella Relazione conclusiva della Indagine conoscitiva svolta nello stesso anno 2012 dalla Commissione VII del Senato (https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=16&id=626901; ivi, cliccare su ALLEGATO).

Il c.d. “valore legale” della laurea consiste soltanto nelle norme che ne richiedono il possesso per chi intenda accedere agli Ordini delle professioni regolamentate, tramite l’esame di Stato, ovvero ai livelli alti del pubblico impiego; si tratta di una condizione necessaria, non sufficiente, in quanto sia la regolamentazione sull’accesso agli Albi sia i bandi del pubblico impiego prevedono prove di esame in aggiunta al possesso del titolo. Nessuno tra gli “abolizionisti” dichiara di volere medici non laureati in medicina, o reclutamento dei dirigenti pubblici con il solo titolo secondario, sicché il discorso potrebbe anche chiudersi qui.

In realtà, nella maggior parte delle prese di posizione si fa riferimento non al valore del titolo, ma alla rilevanza del punteggio con il quale esso è stato conseguito. Se una graduatoria tra inesistenze fosse possibile, si potrebbe dire però che un “valore legale” di tale punteggio è ancor più inesistente rispetto a quello del titolo: sono solo i singoli bandi, per gli esami di accesso alle professioni o al pubblico impiego, a indicare se e quanto peso viene dato, nella valutazione dei titoli, al punteggio di laurea. Una corretta impostazione del dibattito, che nei termini che seguono può essere interessante, deve essere perciò la seguente: quale rapporto è opportuno che vi sia, in entrambe le situazioni esaminate, tra punteggio per l’esame e punteggio per i titoli (e, all’interno di questo, per la valutazione del titolo di laurea)? Sembra evidente che la preferenza per l’esame aumenta la discrezionalità della commissione esaminatrice (e, anche nell’ipotesi di una piena equità di questa, espone il candidato all’alea di incappare in una occasionale cattiva giornata!); all’opposto, la preferenza per punteggi attribuiti ai titoli richiede che gli stessi, e in particolare la valutazione di laurea, siano del tutto attendibili. Tale attendibilità costituisce iI vero tema, presentato in modo più o meno mascherato, delle polemiche in atto.

Queste si sono esasperate poiché alcuni hanno affermato che occorre prendere atto del fatto che la qualità di un Ateneo può essere alta o bassa, e che si dovrebbero “pesare” i voti di laurea in relazione a tale qualità. E’ facile obiettare che non è mai stata verificata (e, a quanto mi consta, neppure studiata!) una eventuale correlazione tra l’essere “di manica larga” o meno nelle valutazioni degli studenti e i livelli scientifici di un Ateneo; inoltre, tali livelli non sono affatto identici nelle diverse aree scientifiche di uno stesso Ateneo, ed è ben noto che sono molto criticati i criteri con i quali essi vengono “misurati”. La superficialità delle ricordate affermazioni ha portato a non considerare un fatto che merita invece attenzione perché è oggettivo, e cioè che nelle valutazioni universitarie non esistono standards omogenei, sicché i voti dati in Atenei diversi, presi come tali, non permettono alcun confronto: o questo viene reso possibile attraverso precise procedure (soluzioni tecniche esistono, se si esce dalle genericità, “meritocratiche” solo a parole), o è inevitabile che si finirà per far pesare sempre di più l’esame rispetto ai titoli.

Nel corso delle polemiche è emerso altresì che non solo privati, ma anche autorevoli Enti pubblici fissano per il voto di laurea una “soglia” al di sotto della quale una domanda di assunzione non viene neppure presa in considerazione. Al proposito, oltre a quanto sopra si è osservato circa la non significatività di una soglia in assenza di standards omogenei, si deve rilevare che rischia così di essere annullato il concetto di “accreditamento” dei Corsi di laurea: per ciò che riguarda la sfera pubblica, come può lo Stato che garantisce un percorso di studi eliminare l’unico “valore legale”, cioè il fatto che il conseguente titolo consente di concorrere a pubbliche assunzioni? Beninteso, e questo vale anche per assicurarne la credibilità nei confronti dei privati, occorre che l’accreditamento dei Corsi di studio avvenga attraverso un percorso rigoroso, non prevalentemente riferito alla mera verifica formale di “requisiti” quantitativi minimali, ma capace invece di verificare la qualità effettiva del loro operare.

Avevamo osservato all’inizio che problemi analoghi si pongono per le votazioni della “maturità”: in assenza di una comparabilità, è stato deciso finora di ignorarle in sede di ammissioni ai Corsi a numero chiuso. Ciò significa che il destino dei giovani è deciso, in poche ore, dai test di ingresso: anche se il contenuto di questi fosse del tutto convincente, il che spesso non è avvenuto, dare un peso zero all’intero percorso scolastico significa disincentivare l’impegno degli studenti in esso. E allora, quale “Buona Scuola” può esservi?