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A scuola il futuro

Cosa studiare per non essere impreparati quando la tecnologia rivoluzionerà il lavoro

17/01/2017
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la Repubblica

JAIME D’ALESSANDRO

«Imparare bene a scrivere e parlare la propria lunga e almeno una straniera, oltre alla scienza, storia e matematica servirà sempre», avverte Salvatore Giuliano, dirigente del Majorana di Brindisi, istituto pubblico dove i testi sono digitali e condivisi e le classi hanno perduto le pareti aprendosi al mondo. «Lo sforzo vero va fatto sul metodo: lavorare in gruppo, far circolare le idee, sperimentare. Come avviene nel mondo del lavoro che funziona. E incoraggiare il “pensiero divergente”: la scuola e la società italiana insegnano a rispondere in un solo modo ad una domanda, quando invece le risposte possibili sono sempre molte di più».

All’atto pratico non resta che frequentare gli “open day” delle medie e dei licei, quando vengono aperte le porte ai genitori, cercando di non farsi abbindolare da una vetrina che come vetrina è stata pensata e non è detto rifletta pienamente la realtà delle cose.

Ma che serva un percorso al-per tro è chiaro a tutti. O meglio, a molti. A Milano quattromilacinquecento studenti hanno preso d’assalto i mini corsi organizzati gratuitamente da Sky nella sua sede. I ragazzi realizzano un telegiornale usando apparecchiatura professionale in quattro studi diversi e tornano a casa con il loro montato e un software per proseguire a divertirsi a casa sul pc. Tutto pieno fino al prossimo anno e le classi cominciano ad arrivare anche dal centro e sud Italia.

Tornando ai numeri il European Centre for the Development of Vocational training (Cedefop) dell’Unione europea, sostiene che da qui al 2025 delle 107 milioni di opportunità di lavoro, circa 46 milioni saranno lavori altamente qualificati, dunque con una preparazione alle spalle che è di livello universitario o fortemente specializzata. Seguiti da 43 milioni di lavori mediamente qualificati. Solo 10 milioni saranno quelli per i quali non serve una particolare preparazione. E negli Stati Uniti la musica è la stessa. Imparare a confezionare un video quindi può tornare anche utile. I video già ora rappresentano il 55 per cento del traffico dati da mobile. E nessuno prevede una diminuzione ma anzi, un aumento esponenziale.

«Torniamo sempre al solito punto: non sappiano cosa servirà domani con esattezza», racconta Riccardo Donadon, fondatore a Venezia di quella strana realtà chiamata H-farm che dalle startup e dall’innovazione per le aziende ora è passata alla formazione di studenti fra i sei e i 17 anni. «La scuola deve essere divertente. Se tutto cambia, l’unica è divertirsi a imparare. Imparare in forma continua. Puntando sulla tecnologia e allo stesso tempo sulla parte umanistica. La sbornia da digitale è controproducente senza questa base di fondo».

A Fabrica, che sorge poco distante e che da anni sforna talenti legati alla comunicazione e alla creatività, la pensano allo stesso modo. «La curiosità», spiega Carlo Tunoli, che dirige l’istituto. «Non conosco altro metodo. La parte tecnico-scientifica ha un ruolo di grande impatto. Ma io personalmente non sottovaluterei la filosofia. Apre la mente e ti prepara all’inaspettato». Ecco: prepararsi all’inaspettato, assumere le basi, frequentare una scuola dove l’apprendere sia divertimento. Incrociando le dita e sperando che tutto vada per il meglio.

Da qui al 2025 secondo la Ue solo un lavoro su dieci non richiederà una preparazione particolare “Vanno incoraggiati pensiero divergente e sperimentazione, come nelle aziende di successo” Nella Silicon Valley ormai dicono: inutile diventare camionista, ci saranno i veicoli a guida autonoma

C’È TEMPO fino al 6 febbraio per farsi un’idea del futuro. Ed è bene che sia un’idea chiara, il rischio è di mandare allo sbando i nostri figli. Mentre si aprono le iscrizioni alle scuole primarie, medie e superiori in Italia — tre le settimane a disposizione — diventa sempre più difficile capire il senso della parola “formazione” e immaginare quello che potrebbe avere nei prossimi anni. L’importante quindi è mantenere la calma: con buona probabilità la scelta che faremo sarà quella sbagliata.

Q UALCUNO si consola rifugandosi nel passato. Davanti ad un liceo romano che ha fatto del rigore il suo marchio di fabbrica, un genitore soddisfatto nota come lì «i ragazzi li facciano studiare come ai vecchi tempi ». Un altro scuote la testa: «È questo il problema: li fanno studiare come quaranta anni fa. E a loro non servirà a nulla se non a bruciargli la giovinezza a forza di compiti».

Oltre la metà dei lavori che verranno svolti fra venti anni devono ancora essere inventati, nel frattempo la metà di quelli che conosciamo verrà automatizzata.

In Europa la rivoluzione tecnologica avrà un impatto tangibile su 54 milioni di persone fra Francia, Germania, Spagna, Inghilterra e Italia stando alla Oxford Economic. In Cina si arriva a 394 milioni, in India a 233. Se lo chiedete agli esperti della Silicon Valley, la risposta più frequente che vi daranno di questi tempi e di non prendere la patente C da camionista perché loro verranno presto soppiantati dai veicoli a guida autonoma. Peccato che analizzare i big data o mettersi a programmare, professioni altamente specializzate e oggi tanto richieste, possono dare qualche garanzia solo nell’immediato. Se la rivoluzione dell’intelligenza artificiale manterrà le sue promesse, né loro né gli avvocati o i radiologi saranno al riparo. In un mondo dai ritmi accelerati, dove le macchine apprendono da sole, le professioni verranno create e soppresse a ciclo continuo. E allora cosa far studiare a chi entra a scuola oggi è un quesito che non ha una risposta se si vuole andare sul sicuro.


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