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A proposito dei dipartimenti di “eccellenza” e di quelli “disabili”

Gianfranco Viesti

06/08/2017
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ROARS

La questione dei “dipartimenti di eccellenza” non è tecnica, ma politica. E’ stata una scelta del Parlamento? Certo, ma è avvenuta solo votando la fiducia ad una Legge di Stabilità a cavallo fra due esecutivi, nella quale sono state inserite disposizioni ben preparate in sede tecnica (chissà da chi), non discusse nel merito e nelle loro implicazioni di lungo termine. A ciò si aggiunga che, per la costruzione dell’indicatore ISPD, il Ministero conferma che sono state operate scelte discrezionali e successive alla disponibilità dei dati. E allo stato, nessuna informazione pubblica è disponibile per valutare l’effetto di queste scelte e sull’esito finale; né è possibile replicare i calcoli del Ministero. La vicenda illumina un conflitto evidente. Da una parte quanti sollecitano un confronto aperto sulle politiche e sui principi che le ispirano, sui criteri per valutare “a che servono le università” e quali sono i loro meriti, sull’universalismo dei diritti all’istruzione terziaria indipendentemente dal luogo di nascita, sull’effetto delle università sullo sviluppo dei territori.  Dall’altra un gruppo di tecnocrati “illuminati”, che, in base alla conoscenza che solo essi hanno del Bene e del Male, perseguono un disegno politico-ideologico (assai simile nelle sue linee ispiratrici a quello del partito conservatore britannico) volto ad un radicale ridisegno del sistema dell’istruzione superiore, che concentra risorse su poche sedi da essi prescelte, e destina misure compassionevoli alle altre, caratterizzate “da disabilità”, secondo l’espressione coniata da (due membri del) direttivo ANVUR. 

Un  commento critico sulle politiche per l’università, ed in particolare sui cosiddetti “dipartimenti di eccellenza”, apparso su Il Mulino, ha ricevuto ben due repliche: da parte di uno dei consiglieri economici di Palazzo Chigi (Marco Leonardi, con Gabriele Bottino) e di due Commissari dell’Agenzia Nazionale di valutazione (Anvur, Daniele Checchi e Raffaella Rumiati).

Senza riprendere le considerazioni generali svolte nell’intervento iniziale, a cui rimando il lettore, devo però qualche chiarimento su alcune vivaci contestazioni dei fatti lì esposti: aspetti tecnici, ma importanti per la discussione. Contestazioni che non trovo fondate.

Sulle date: Leonardi e Bottino sostengono che i risultati della VQR, su cui è basato il provvedimento, siano stati resi noti nel giugno 2017; ma dal sito dell’Anvur è possibile apprendere che i risultati aggregati della VQR sono stati presentati, ed erano quindi disponibili, già il 19.12.2016.

Sulle risorse: ancora Leonardi e Bottino affermano che si tratta di risorse aggiuntive al FFO: ma (come evidente anche dal loro intervento), dato che l’ammontare del FFO per il 2018 e gli anni successivi non è stato ancora definito, questo è solo un auspicio: non è garantito che l’istituzione di una nuova sezione del Fondo determini un suo incremento complessivo.

Sulle modalità di costruzione dell’indicatore utilizzato: Checchi e Rumiati ricordano che l’indicatore ISPD era stato già proposto (e oggetto di pesanti critiche, sia nella sua formulazione, sia perché appariva, ad esempio, sensibile alla mera dimensione dei dipartimenti). Il Ministero però conferma che, per la sua concreta applicazione, sono state operate scelte, discrezionali e successive alla disponibilità dei dati, piuttosto importanti, relative ad esempio, alle soglie dimensionali per determinare i Dipartimenti esclusi dalla “competizione”, così come ai criteri per la numerosità minima, e all’aggregazione dei settori scientifico-disciplinari.

Nessuna informazione pubblica è disponibile per valutare l’effetto di queste procedure sull’esito finale, che vede differenze estremamente limitate nei punteggi, e un numero straordinariamente alto di ex aequo (importanti per il limite dei dipartimenti “eccellenti” di ogni ateneo); nè è possibile replicare i calcoli in assenza di queste informazioni.

Sull’indicatore utilizzato: i dati di Checchi e Rumiati confermano, involontariamente, proprio l’effetto asimmetrico fra area scientifiche, dato che le economie, con il 7,8% dei docenti, hanno il 10,5% dei dipartimenti “eccellenti”, e le scienze politiche, con il 2,8%, il 2,3%, e dunque, si stabilisce che in Italia nelle economie vi è un terzo in più di eccellenza, nelle scienze politiche un quinto in meno. Sono gli stessi autori a sottolineare quanto sia impervio questo metodo che compara aree scientifiche diverse. Lo stesso Checchi poi ha recentemente dichiarato al Corriere della Sera che la valutazione “è stata concepita fin dall’inizio per fornire al Ministro un quadro aggiornato dei punti di forza e di debolezza degli Atenei, non per premiare le eccellenze”

Si è prodotta in conclusione, stando al Presidente dell’Anvur, “una comparazione più fondata, ancorché mai perfetta” , ma su di essa, come se fossero le tavole della verità, viene basato il futuro degli atenei italiani.

Tre conclusioni più generali. La prima è che non vi è una eccellenza e un metodo per calcolarla, né vi sono depositari della verità su questi aspetti. Anche grazie alla costante e documentata opera di vera e propria contro-informazione operata dal sito www.roars.it in questi anni, siamo in grado di valutare la grande discrezionalità, e le scelte politiche implicite che vi sono in queste norme, anche nelle più apparentemente oscure. Ne può addirittura scrivere chi proviene da Atenei del Sud (sui quali erano già piovuti gli strali del primo dei due Commissari Anvur, in teoria neutrale), nonostante essi siano caratterizzati, come hanno tenuto a sottolineare Checchi e Rumiati, da “disabilità”.

Seconda. Non sono fatti tecnici ma questioni politiche. Il Parlamento ha fatto queste scelte? Certo, ma solo votando la fiducia ad una Legge di Stabilità a cavallo fra due esecutivi, nella quale sono state inserite queste ben preparate (chissà da chi, in sede tecnica) e dettagliate disposizioni, non discusse nel merito e nelle loro implicazioni di lungo termine.

Terzo ed ultimo. Il conflitto è evidente. E a mio avviso è fra un gruppo di esperti, tecnocrati “illuminati”, che, in base alla conoscenza che solo essi hanno del Bene e del Male, perseguono un disegno politico-ideologico (assai simile nelle sue linee ispiratrici a quello del partito conservatore britannico) volto ad un radicale ridisegno del sistema dell’istruzione superiore, concentrandolo su poche sedi da essi prescelte, anche attraverso scelte politiche mascherate da decisioni tecniche. Magari destinando alle altre, ed in particolare a quelle delle aree più deboli del paese, un po’ di misure compassionevoli (per i “disabili”). E fra quanti sollecitano un confronto aperto sulle politiche e sui principi che le ispirano, sui criteri per valutare “a che servono le università” e quali sono i loro meriti, sull’universalismo dei diritti all’istruzione terziaria indipendentemente dal luogo di nascita, sull’effetto delle università sullo sviluppo dei territori.

Grazie al disinteresse della politica, i primi hanno già stravinto. Ma sia almeno consentito discutere di questioni così importanti.

Testo apparso anche su Il Mulino.


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