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10 miliardi d'incentivi per le imprese del Sud? Vadano all'istruzione e alla ricerca

L’articolo di Francesco Sinopoli, Segretario generale della FLC CGIL, pubblicato sull’Huffington Post.

20/10/2017
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L'Huffington Post

Nella prima parte di queste riflessioni ho voluto centrare e rilanciare il tema dell'intreccio indissolubile tra questione meridionale, sviluppo delle aree depresse, e gli investimenti necessari in istruzione, università e ricerca, analizzando le politiche devastanti di questi anni, i loro limiti, le tendenze, e le strategie. In questa seconda parte, vorrei però concentrarmi su una serie di proposte concrete e realizzabili, nella speranza di portare contributi efficaci ad un cambio di paradigma nello sviluppo delle politiche meridionaliste, senza mai perdere di vista, appunto la centralità degli investimenti in conoscenza.

Innanzitutto, abbiamo bisogno di un piano di rafforzamento del tempo scuola e della generalizzazione della scuola dell'infanzia. Altrimenti l'attuale modalità di distribuzione degli organici asseconderà lo stravolgimento demografico creando peraltro una assurda competizione tra Nord e Sud, costringendo poi lo stesso Ministero a trovare correttivi di vario tipo ad una modalità che è basata su un obiettivo di risparmio e non ha alcun altro tipo di progettualità.

 In Puglia il progetto denominato "Diritti a scuola" utilizza 2000 unità di personale aggiuntivo tra docenti e personale Ata per rinforzare le competenze di base in italiano matematica e nelle lingue straniere. Il progetto ha prodotto una riduzione dal 24 al 18% della dispersione scolastica diventando la premessa per combattere l'abbandono universitario. Serve per la scuola un progetto nazionale che consideri il Mezzogiorno come una priorità proprio per le ragioni che ritroviamo nella nostra Costituzione. Come si diceva, non si è trattato di un caso ma di un pianificato abbandono del Sud al suo destino, chiudere progressivamente gli atenei e ridurre gli organici della scuola. Al contrario, le politiche dello sviluppo dovrebbero concentrarsi su elaborazioni che abbiano come presupposto l'aumento complessivo dei livelli di istruzione. I dati Ocse non ci dicono nulla di nuovo ma è bene fare chiarezza su uno in particolare: ultimi per investimenti e numero di laureati, il fatto che nel nostro paese il 30% scelga le materie umanistiche non può e non deve fare scandalo. Se non si scelgono in Italia con il nostro patrimonio artistico e culturale, dove altro si dovrebbero scegliere? Anzi, dovremmo essere attrattivi su queste discipline anche all'estero! E non lo siamo per carenze delle infrastrutture a cui si prova a porre rimedio con questa demenzialità del numero chiuso anche a filosofia.

Quando ancora nel paese esisteva un dibattito politico capace, pur tra mille contraddizioni, di partire da reali interessi e bisogni si era addirittura previsto che dovesse esistere un rapporto diretto tra politiche di bilancio e politiche della ricerca. Con una sede di coordinamento specifico dove politica economica, politica della ricerca e politica industriale si potessero muovere sinergicamente in una parola politica dello sviluppo. È indispensabile ripartire da qui. Poi certo occorre produrre scelte. Puntiamo su energie rinnovabili e, quindi, su tecnologie e innovazione applicata a esse, beni culturali, tutela e valorizzazione turistica del territorio e dell'ambiente con relativa prevenzione dei rischi, riqualificazione dell'ambiente urbano. Elaboriamo nuove politiche economiche coerenti fondate su investimenti diretti in istruzione, ricerca e tecnologia e guidate da un nuovo protagonismo dello Stato che metta al centro la sostenibilità. Non è un sistema di sgravi e incentivi che può raggiungere questi risultati. Con gli incentivi si aggrava solo il nostro debito tecnologico perché chi è capace di fare innovazione lo fa attraverso investimenti di lungo periodo.

La curva della nostra produttività cala inesorabilmente dalla seconda metà degli anni '80 proprio quando sulla tecnologia ha iniziato a giocare una parte significativa nella competizione globale e cala mentre la nostra berd (ricerca delle imprese) rimane stagnante.

In Germania, oggi patria di industria 4.0, all'inizio del nuovo millennio quando il paese era impegnato a completare l'unificazione e aveva livelli di crescita molto lontani da quelli attuali si è fatto un grande investimento negli istituti Fraunhofer che mettono a disposizione delle aziende tecnologie e macchine oltre che migliaia di ricercatori (oltre 24.000) e non sostituiscono la scienza fondamentale del Max Planc senza la quale non esisterebbe l'innovazione tecnologica. Negli anni della crisi poi l'investimento è aumentato. Noi abbiamo fatto esattamente l'opposto, nello stesso arco temporale abbiamo distrutto la ricerca pubblica: con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

Non abbiamo alternative: per risalire la china e per superare il divario che nella crisi è aumentato tra Nord e Sud, dobbiamo comprendere che servono investimenti nelle infrastrutture più importanti che abbiamo, le nostre scuole, le nostre università, le nostre accademie e i nostri conservatori, i nostri enti di ricerca.

Eppure un tempo questa consapevolezza c'era.

Non è un caso che nel 1976 siano stati creati i laboratori nazionali del sud dell'Infn a Catania, scelta che nel lungo periodo ha permesso anche la nascita di un tessuto produttivo di avanguardia su quel territorio pur con tutte le difficoltà degli ultimi anni. Non è un caso che sono state costruite università come quella di Arcavacata, e non è un caso che siano state fatte scelte negli anni finalizzate a radicare nelle aree difficili luoghi importanti del sapere. Non sono rimaste cattedrali nel deserto ma hanno prodotto cambiamenti nella struttura sociale che non possono essere misurati solo con indicatori di natura economica. Esiste un output sociale che ha un peso enorme.

Siamo andati indietro, non avanti.

In sostanza, oggi la sfida autentica è la costruzione collettiva di una nuova politica della conoscenza che punti a un'eccedenza di sapere per qualificare il nostro tessuto produttivo e orientarlo verso nuove specializzazioni attraverso un intervento straordinario dello stato. Pertanto, servono competenze trasversali e complesse per affrontare il nuovo salto di paradigma che nasce dall'integrazione e dallo sviluppo delle tecnologie digitali anche qui all'opposto di una formazione settoriale e specialistica. Dobbiamo comprendere che un paese con il nostro grado di analfabetismo di ritorno, i nostri tassi di dispersione, il nostro numero esiguo di laureati e il nostro risibile investimento in istruzione, scienza e tecnologia non potrà mai farcela ad invertire la rotta su cui si trova, frutto di scelte sbagliate perpetrate per anni. Al contrario le politiche di questi anni hanno giocato solo sul piano dell'offerta attraverso meccanismi d'incentivi finalizzati direttamente o indirettamente a ridurre il costo del lavoro mantenendo inalterata la nostra specializzazione produttiva. Le modalità con cui è stata realizzata la stessa alternanza scuola-lavoro sono funzionali in molti casi a questo obiettivo.

Ma soprattutto serve ancora di più comprendere che il sapere è il presupposto per la costruzione di una cittadinanza democratica, per realizzare l'obiettivo di una società aperta e inclusiva capace di accrescere le capabilities di ciascuno. Lo studio, la scuola, l'università sono parte del riscatto sociale, sono strumenti indispensabili per la comprensione del mondo e forme indispensabili di socializzazione democratica, perché educano al sapere critico.

Allora decidiamo che queste sono priorità, a partire dalla prossima legge di stabilità. Per questo, quando le imprese chiedono altri 10 miliardi d'incentivi, rispondiamo che quei 10 miliardi devono andare all'istruzione e alla ricerca. Per il bene di tutti.

Siamo nelle condizioni di avanzare un progetto di politica dello sviluppo che guardi al presente e al futuro: questo paese se riparte dal Sud e dall'istruzione ha ancora una possibilità, nella cornice assicurata dalla nostra Costituzione repubblicana.


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