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Messaggero: Riportiamo a scuola il merito e il rigore

Giorgio Israel

13/06/2009
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Il Messaggero

L’ABOLIZIONE degli esami di riparazione autunnali per i licei, quindici anni fa, fu la conclusione di un processo iniziato da anni, ma la decisione del ministro D’Onofrio aprì una faglia che è andata sempre più allargandosi. Non che non vi fossero ragioni serie per modificare una situazione piena di inconvenienti, a partire dal costo delle ripetizioni estive per le famiglie. Ma fu una leggerezza scassare un sistema collaudato senza disporre di un’alternativa ben pensata e applicabile; e, di fatto, l’alternativa non l’aveva in mente nessuno. L’assenza di regole non poteva non determinare una caduta del rigore e non poteva non solleticare tendenze demagogiche al lassismo. Chi ricorda il clima di quegli anni sa bene che il mondo degli insegnanti lo aveva capito e che ha sofferto di sentirsi sottrarre uno strumento importante sia per stimolare il rendimento scolastico sia per mantenere la disciplina in classe. Di fatto, col crollo della spinta a far bene anche tra gli studenti migliori, si creò un appiattimento generale. Il messaggio stimolava l’opportunismo: «chi me lo fa fare di studiare se anche l’ultimo della classe va avanti lo stesso?». Tutti i marchingegni escogitati negli anni successivi dall’invenzione dei nefasti “debiti formativi” che non venivano mai recuperati, a quella del “6 rosso”, erede dei famigerati “6 politico” e “18 politico” di sessantottina memoria hanno continuato a trasmettere quel messaggio opportunista e lassista.
Ha trionfato una demagogia permissiva ispirata da un’ideologia imperniata su due principi: tutti debbono andare avanti allo stesso modo e l’obiettivo di riferimento non è il rendimento massimo (ovvero il primo della classe), bensì un rendimento minimale o, come fu detto con una penosa locuzione, la “media minima”; la scuola deve gestire i nuovi problemi in base al principio dell’“autonomia”, di per sé ottimo ma realizzato in modo da travolgerla sotto una valanga di burocrazia e di adempimenti formali. Il modo con cui è stata concepita l’autonomia scolastica come quella universitaria lungi dall’alleggerire la struttura l’ha appesantita enormemente con una miriade di organismi e adempimenti che la distolgono dalla sua funzione istituzionale. Ciò non è strano, perché è tipico delle concezioni costruttiviste rimpiazzare i contenuti con le metodologie organizzative e didattiche che invece di liberare la struttura la soffocano in una rete esasperante di regole che deresponsabilizzano la persona (e la frustrano) nella pretesa di oggettivizzare ogni comportamento. Il 6 rosso è una tipica manifestazione di questa visione: sostituire una regola “oggettiva” alla scelta responsabile degli insegnanti di attribuire o no un’insufficienza.
Come rimediare ai guai derivanti da queste politiche sbagliate? E si noti che ciò va fatto perché nessuna persona responsabile può giocare su due tavoli, la mattina sventolando le statistiche internazionali che sanzionano l’insuccesso della nostra scuola e il pomeriggio difendendo le metodologie e le regole fin qui adottate, addirittura facendo credere che il rimedio sia propinarne un’overdose.
Rimediare è difficilissimo perché tanti anni di lassismo hanno alimentato le peggiori abitudini, la tendenza a pensare la scuola come una baby-sitter che deve rendere al massimo con il minimo di problemi. Ciò è anche frutto della visione dello studente e della famiglia come “utenti” e della valutazione della scuola in termini di “customer satisfaction”. Troppe famiglie si sono pigramente trasformate in sindacato dei figli e trovano inconcepibile che l’estate possa essere “rovinata”: se il pargolo non studia è colpa della scuola. Una vignetta comparsa di recente in Francia da conto magistralmente della trasformazione avvenuta in quarant’anni: nel 1969 papà e mamma si rivolgono corrucciati al figlio chiedendo «cosa sono questi voti?», nel 2009 rivolgono la stessa domanda con un’espressione infuriata, ma stavolta all’insegnante...
L’altra difficoltà è che si tende ad affidarsi troppo alla normativa. Nel campo dell’istruzione, esistono infiniti modi per interpretarla e aggirarla. Inoltre, come si è detto, l’eccesso di normativa è deresponsabilizzante e umiliante per chi deve applicarle. La normativa deve essere concepita soprattutto come un preciso segnale di indirizzo. Gli insegnanti noi insegnanti, perché il problema si pone in termini identici in tutto il comparto dell’istruzione sono funzionari pubblici che hanno un ruolo di altissima responsabilità sociale: ciò significa che, da un lato, essi debbono interpretare fedelmente le richieste che la società rivolge loro attraverso le sue strutture istituzionali, e dall’altro debbono essere liberi di applicarle nella loro piena responsabilità pena una condizione che avvilisce la loro professionalità. Oggi quel che ci si chiede ed è una richiesta che viene chiaramente da tutti i settori responsabili della società che sentono un profondo malessere per il degrado della scuola è una ripresa forte di rigore e di responsabilità.
Le discussioni accanite che si stanno intrecciando attorno all’interpretazione della legge 169 richiedendo che sia univoca e applicabile quasi meccanicamente, e i tentativi di cavarsela ripristinando il ricorso al 6 rosso, manifestano una gran confusione. Si dice che sia contraddittorio da un lato enunciare un principio rigido come quello dell’obbligo fatto allo studente di ottenere la sufficienza in ogni materia e, dall’altro, lasciare libero il Consiglio di promuovere lo studente in casi in cui si ritiene che qualche insufficienza non sia irrecuperabile in modo semplice, ma non di farlo usando il 6 rosso. Invece non c’è alcuna contraddizione. Difatti, da un lato la norma trasmette un segnale forte volto a stimolare la serietà e il rigore nello studio; dall’altro non si vuole negare il ruolo che l’insegnante e il Consiglio nella loro autonomia e competenza possono esplicare nella valutazione dei casi particolari. Le due cose messe assieme non significano affatto un invito a promuovere tutti. Al contrario. Ciò potrebbe essere pensato soltanto da chi sia comunque intenzionato al lassismo. In tal caso, non c’è barba di normativa che possa porre rimedio: quella lassista verrà preferita in quanto darà copertura a una prassi lassista, quella rigorosa verrà aggirata alzando i voti massicciamente.
Considero importante un suggerimento venuto dai docenti del Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità, autore di un appello che venne anche raccolto dal ministro Gelmini fin dal suo insediamento. Il suggerimento è di mettere accanto alla sufficienza non effettiva attribuita a una materia, per la decisione responsabile del Consiglio di non bocciare un allievo che si ritiene opportuno mandare avanti nonostante qualche carenza giudicata recuperabile, la dicitura: «Voto di Consiglio». Sembra un formalismo e invece è un fatto di sostanza. Basta misurare la differenza tra questa dicitura e un 6 rosso: nel secondo caso si maschera la scelta dietro una norma che peraltro non esiste più ed è quindi inapplicabile nel secondo caso si esplicita la scelta del corpo insegnante che si assume a viso aperto la sua responsabilità bilanciando le esigenze di rigore con la valutazione specifica della persona e al contempo indica esplicitamente la necessità del recupero.
Gli insegnanti italiani sono nella loro stragrande maggioranza funzionari di grande responsabilità, altrimenti una scuola soggetta a tante sperimentazioni scombinate sarebbe crollata da un pezzo. Essi sono capaci di bilanciare un’esigenza di rigore che viene richiesta da ogni lato, con una valutazione ponderata caso per caso. Nella loro funzione dovrebbero cercare sempre più l’appoggio delle famiglie responsabili, che sono tante. Anche i mezzi di comunicazione dovrebbero fare la loro parte non andando sempre a intervistare i vocianti sindacalisti dei figli. Il merito va premiato non soltanto tra gli studenti ma anche tra le famiglie.


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