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Unità: L'istruzione malata

Benedetto Vertecchi

17/10/2008
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l'Unità

Qualcosa sta accadendo nel sistema educativo italiano, qualcosa che deve essere interpretato. Già da alcuni mesi si assiste al crescere del disagio di quanti, in un modo o nell’altro, sono interessati al funzionamento delle scuole e delle università. Finora tale disagio è stato riferito a ragioni occasionali, dall’obbligo dei grembiuli al ripristino dei voti decimali, alla riduzione degli organici, al taglio degli orari e via seguitando. Certamente si è trattato di decisioni che hanno suscitato reazioni, e non ci si poteva attendere altro.
Da parte governativa era scontato si affermasse che qualunque intervento incida in profondità su aspetti importanti della vita sociale produce reazioni difensive, e che tali reazioni costituiscono un segnale di atteggiamenti conservatori. Ma si tratta di una obiezione che, per quanto poco convincente, poteva essere mossa ai movimenti di protesta che si sono andati sviluppando nel Paese fin quando il malessere era prioritariamente riferibile a questo o a quel provvedimento, per esempio la riorganizzazione del lavoro nella scuola primaria (ovvero il ritorno al maestro unico) o la soppressione nelle università di quattro su cinque dei posti in organico che si libereranno per pensionamento nei prossimi anni.
Ma quelle alle quali stiamo assistendo non sono espressioni di malessere che si manifestano a livelli determinati del sistema d’istruzione o che investono strati determinati del personale. Si sta precisando una risposta d'insieme che coinvolge in un rifiuto complessivo l’intera politica governativa per la scuola e per l’università. Si direbbe che giorno dopo giorno cresca la consapevolezza della necessità di considerare il sistema d’istruzione nella sua interezza. Non ci sono interventi che investano un livello di tale sistema senza che si producano ripercussioni sugli altri. L’interpretazione del ruolo che si riconosce all’educazione nella società non può che prendere in considerazione ciò che avviene nelle scuole per l’infanzia come in quelle primarie e secondarie e nelle università. Il fatto nuovo è che va diffondendosi proprio questa consapevolezza. Nelle proteste che vanno montando non prevale più la preoccupazione riferibile a questo o a quel provvedimento, ma quella che investe le linee dell’evoluzione (ma sarebbe più esatto dire involuzione) del sistema d’istruzione.
Nessuno afferma che nelle scuole e nelle università tutto proceda nel migliore dei modi. Sarebbe irragionevole affermarlo, se non altro perché l’educazione si modifica con continuità in relazioni alle trasformazioni del contesto in cui opera. Ma un conto è introdurre nel sistema d’istruzione le modifiche che ad una riflessione consapevole, che non può non investire l’insieme del Paese, appaiano opportune, un conto ben diverso è esplorare le soffitte del sistema per trarre dalla polvere soluzioni che rispondono all'unico intento di diminuire l’impegno dello Stato nel settore. Stiamo constatando che la svolta nell’interpretazione del ruolo del sistema d’istruzione avviata con la riforma della Scuola Media del 1962 è stata profondamente interiorizzata negli atteggiamenti collettivi: quella che a gran voce si richiede, dalle scuole dell’infanzia alle università, è la realizzazione del principio dell’uguaglianza delle opportunità educative. Di fronte allo stillicidio di provvedimenti che già negli anni della gestione Moratti aveva diminuito il ruolo della scuola, agitando i simulacri di un’utilità povera di elementi identitari, si sta riaffermando la funzione democratica insostituibile del sistema d’istruzione. Lo Stato è responsabile del funzionamento e della crescita ulteriore del sistema d’istruzione, un bene collettivo che non può essere sacrificato ad altri interessi, politici o economici che siano. Ma per procedere in questa direzione occorre capacità di analisi e di progetto: siamo in entrambi i casi di fronte ad un vuoto sconfortante.


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