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Unità: Conservatori, la musica è in frantumi

La riforma dell’insegnamento musicale non ha funzionato, ci sono Conservatori eccellenti e pessimi fra tanti di livello medio: ecco una «foto» del Paese amato nel mondo per l’opera e con 50% delle fonti della musica europea

13/12/2007
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l'Unità

di Luca Del Fra

Il disagio delle scuole di musica italiane dura da così tanto tempo che è facile confondere il soggetto con il complemento: il fatto incontestabile che sui Conservatori pesino problemi oramai annosi sta lentamente scivolando nella percezione che il problema siano i Conservatori stessi. Di qui probabilmente il taglio inopinato di oltre la metà dei fondi per il loro funzionamento, decisione prevista nella Finanziaria 2008; una scelta contro cui Nando Dalla Chiesa, sottosegretario al Ministero dell’università con deleghe all’Alta formazione musicale, si è opposto con un accorato appello pubblicato su l’Unità sabato scorso. Ma le ragioni di sfiducia sarebbero parecchie: se le attuali contestazioni degli studenti riguardano in primo luogo la spendibilità dei loro titoli di studio, la riforma del ’99, che equipara i conservatori alle università, giace come lettera non del tutto morta ma certo in gravi condizioni. Il tutto avviene in un Paese che conserva oltre il 50% delle fonti (manoscritti e stampe) della storia della musica europea e la cui tradizione musicale, avvertita come «gloriosa», è poco conosciuta e ancor meno frequentata attivamente dalla stragrande maggioranza dei cittadini. Avvolta da anni in un pericoloso isolamento, la rete di 74 scuole di musica - 54 conservatori e 20 istituti pareggiati - in realtà si profila come contraddittoria, alternando senza soluzione di continuità ampi spazi di eccellenza, baratri d’ignoranza e una notevole medietà.
I problemi dei Conservatori affondano le radici nella loro storia che ha origine nel ‘600, quando bambini orfani e abbandonati erano accolti in strutture di carità dove gli insegnavano un mestiere e, tra tanti, anche la musica. Un «addestramento tecnico», al pari della cucina o del cucito, lontano dall’«alta cultura», in Italia corrispondente solo all’umanistica che ha sempre guardato alla musica con sospetto, illivorita dall’enorme successo riscosso dai compositori italiani nel mondo - basti pensare all’imporsi dell’opera a livello internazionale, mentre il teatro di parola con qualche eccezione s’immergeva nel canovaccio del vernacolo e latitava fino a Pirandello. Quando con l’unità d’Italia queste scuole passano allo Stato, il loro riconoscimento presentato come grande novità ricalca il vecchio modello francese creato da Luigi Cherubini in epoca napoleonica.
A cementare i preconcetti umanistici ci penserà la riforma Gentile, che sancirà l’espulsione della musica dalle scuole ordinarie destinando la maggioranza degli italiani a ignorare la sua tradizione musicale. I Conservatori - in cui si studia approssimativamente nel periodo delle medie e superiori - diverranno sempre più scuole tecniche, dove si penserà a creare il «solista virtuoso», a promuovere il talento eccezionale, più che a formare un musicista culturalmente completo e in grado di suonare in gruppo o in orchestra, e dunque poco rispondente alla produzione artistica. Un impianto figlio di una scuola idealistica e destinato a protrarsi con lievi aperture per oltre 70 anni, sprofondando le scuole di musica in un universo chiuso e isolato, idoneo allo sviluppo di forti tensioni corporative, e trasformando il sistema in una fabbrica di disoccupati. Proprio al bisogno di assorbire i diplomati al proprio interno risponde la crescita esponenziale delle scuole di musica a partire dal Dopoguerra: venticinque nel 1947, settantaquattro oggi.
Lungamente auspicata, l’esigenza di una riforma del sistema si concretizza dopo notevoli discussioni nel dicembre del 1999 con la legge 508, votata trasversalmente dagli schieramenti politici. E purtroppo, come spesso capita alle norme bipartisan, il risultato più che a un progetto culturale ottempera a spinte corporative. Un guscio vuoto che rimanda per la sua applicazione a regolamenti e ordinamenti ministeriali, rinviati dal ceto politico - in particolare da Letizia Moratti quando era ministro - con tecniche da melina calcistica, indice ulteriore di disinteresse.
Accolta con tripudio dal mondo della didattica musicale, la riforma prevede che i Conservatori diventino in blocco istituti di Alta Formazione: un’arma a doppio taglio e non solo perché trasformare d’incanto 74 scuole in università obbedisce alla logica borbonica del «todos caballeros». Infatti, come la riforma universitaria, anche quella dei Conservatori è prevista a «costo zero» - che formula bizzarra! -, ma alle università che già erano tali era chiesto di ristrutturarsi, mentre ai Conservatori è stato intimato di divenire - a costo zero? - università. La differenza non è lieve. Tra i dati positivi della riforma c’è l’allargamento dell’offerta formativa cui i conservatori spesso però non riescono a dare una risposta adeguata, poiché il salto culturale all’Alta Formazione non si compie per decreto. Basti considerare che a otto anni dalla promulgazione della legge il reclutamento dei docenti avviene ancora in base ai criteri delle scuole medie: anzianità di servizio, handicap, malattie, figli a carico nonché ricongiungimento al coniuge - ma non al convivente -: la parola merito è tabù. Un metodo accanitamente difeso dai sindacati con la complicità del Ministero, e la pesante conseguenza che ai Conservatori delle grandi città, i più ambiti, giungono nella migliore delle ipotesi docenti a fine carriera. Non a caso, sedi defilate come Trieste e l’Aquila si stanno rivelando le più vivaci e attive nel portare avanti la riforma, mentre controspinte verso il vecchio ordinamento affiorano a Milano e Roma. La conseguenza paradossale è che la riforma favorisce le sedi piccole, accelerando il declino di quelle grandi e accentuando la situazione a macchia di leopardo che contraddistingue la qualità dell’insegnamento musicale in Italia.
Non inserita in un progetto complessivo, la trasformazione in università lascia aperto un baratro: presso quali istituti avranno un’istruzione musicale di base i ragazzi che poi si specializzeranno in queste università musicali? Di fatto, ora i Conservatori sono costretti a mantenere il doppio ordinamento, pre e post riforma, con lo smacco che gli iscritti ai vecchi corsi sono molti di più rispetto ai nuovi. Nel frattempo sono state varate le scuole medie a indirizzo musicale: con un paio di mezz’orette di strumento individuale e un’oretta di solfeggio collettivo alla settimana, non paiono proprio una risposta seria, ma solo un altro luogo dove piazzare i diplomati dei conservatori.
Infine fa riflettere come l’applicazione del modello universitario all’Alta Formazione musicale, sancito da normative europee, stia creando non poche perplessità in paesi come la Francia e il Portogallo, orientati a creare un numero ristretto di super-conservatori che sfuggano alle logiche un po’ riduttive del triennio più biennio, non esattamente consone a creare un musicista completo. Se l’inferno è lastricato di buone intenzioni, è probabile che il demonio con la così benintenzionata riforma dei Conservatori abbia lastricato il suo salotto: meglio prenderne atto e provare a cambiare prima che sia troppo tardi.