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Il DDL Gelmini al Senato

Ribadiamo le nostre critiche e le nostre proposte

21/07/2010
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Nelle prossime ore il Disegno di Legge 1905 sull’Università, c.d. “Gelmini”, andrà al voto del Senato. In queste settimane è cresciuto un forte movimento di opposizione tra i ricercatori a tempo indeterminato, che ruota intorno al rifiuto degli incarichi didattici. Molti Atenei non sono in grado di presentare il Manifesto degli Studi, e si susseguono prese di posizione degli Organi accademici ovunque. La Crui ed i singoli Rettori, in grande affanno, esprimono tentativi di far rientrare la protesta dei ricercatori, senza tuttavia prendere posizione esplicita contro il DDL. A seguito della manovra economica e dei tagli retributivi previsti, e anche come effetto della protesta dei ricercatori, ora anche associati e ordinari cominciano in misura crescente ad aderire alla protesta.

Sia nella maggioranza di Governo sia nell’opposizione sono in corso tentativi volti a produrre modifiche al testo tali da correggere, sedare, ripristinare la normalità. In queste ore le ipotesi in campo sono le più diverse, e proprio per questo è forse utile provare a puntualizzare il senso e la direzione che la discussione dovrebbe a nostro avviso assumere.

Le scelte del DDL

Se il DDL fosse approvato nel suo impianto attuale si determinerebbe uno scenario (che evidentemente corrisponde alla volontà del Governo), per il quale gli attuali ricercatori si avviano nel giro di qualche anno alla sparizione, senza che vengano offerte loro significative opportunità di uscire dal ruolo ad esaurimento con il passaggio ad associato.

Dopo trent’anni di stato giuridico ibrido (insegnano, ma non sono docenti), il nodo viene tagliato alla radice sopprimendo la figura, e attendendo la sparizione fisica degli interessati. Si configura una docenza articolata a regime su due fasce di strutturati, ed un futuro canale di accesso fondato sull’istituzione del ricercatore a tempo determinato “3+3”. Il combinato disposto del taglio ai finanziamenti, del blocco parziale del turn-over, e del suo blocco effettivo per molti Atenei, visto l’atteso sforamento della soglia del 90% dei costi di personale dal 2011, produrrà un sostanziale congelamento del reclutamento per diversi anni. Mentre il personale strutturato (ordinari, associati e ricercatori) si avvia ad uno sfoltimento anagrafico per pensionamento già prevedibile nelle sue dimensioni, sono anche chiare le prospettive per quanto riguarda carriere e retribuzioni: carriere bloccate, e retribuzioni che subiscono decurtazioni permanenti, che assommano a centinaia di migliaia di euro, tanto più gravi quanto più lunga la carriera attesa.

Del tutto incerte le prospettive per il futuro ruolo a tempo determinato: il DDL non prevede alcun vincolo a collegare all’attivazione dei contratti 3+3 una reale e credibile prospettiva di immissione in ruolo, poiché non c’è obbligo di appostamento di risorse per il reclutamento futuro. Una lotteria senza paracadute, che si aggiunge ai percorsi di guerra del precariato attuale. In queste condizioni, il contratto 3+3 verrà DOPO il percorso precario oggi già diffuso, e non INVECE di esso. Inoltre, per quale ragione gli Atenei dovrebbero attivare contratti che costano il 20% in più del ricercatore a tempo indeterminato, quando possono serenamente continuare a utilizzare precari che costano poco o niente?

Ma il vero tallone d’Achille del DDL è proprio nei temi che riguardano i precari e più in generale le prospettive di accesso dei giovani. Il nodo che il DDL non affronta, e che costituisce invece la priorità più grande per chi voglia pensare ad una vera riforma della nostra Università, è il tema dell’accesso e del reclutamento dei giovani. E’ il nodo cruciale perché attraverso di esso si disegna e si programma il futuro dell’istituzione, oltre che il destino dei singoli, nel medio-lungo periodo. E’ la vera cartina di tornasole, il banco di prova delle volontà politiche sul futuro dell’Università.

Il DDL non lo può risolvere perché è un provvedimento-tampone, nato e concepito in uno scenario nel quale mai si dovrebbero ipotizzare riforme di sistema: una riduzione drastica di risorse. Il nodo è politico; non solo non si investe, ma si tagliano risorse, e questa scelta di fondo delimita e definisce il senso di un provvedimento che si vuole vendere come riforma epocale. In realtà, in questa forma il DDL è un puro aggiustamento al ribasso delle condizioni giuridiche e retributive della docenza e dei suoi rapporti di potere interni.

Da questo cul de sac non si esce, e nessuna propaganda è in grado di ribaltare l’ordine reale delle priorità che riguardano l’Università; è vero che l’Università ha bisogno di interventi correttivi importanti, ma pensare che ciò si realizzi in un quadro di declino annunciato è come costringere un malato terminale a fare ginnastica. I temi cruciali per il futuro sono due: un quadro sostenibile di finanziamenti ( e le regole relative), e il reclutamento dei giovani. Ogni intervento di modifica strutturale degli assetti della docenza non può che partire da qui: dai problemi e dalle priorità reali.

Soluzioni o problemi?

Nel tentare di arrampicarsi sugli specchi di un approccio punitivo ma anche ideologico, il DDL produce un groviglio di contraddizioni. Gli assunti da cui parte (messa ad esaurimento della terza fascia, strutturazione della docenza su due fasce, mantenimento e anzi implementazione del precariato) non solo non disegnano un quadro di priorità sostenibili, ma anzi creano la necessità di norme, transitorie e a regime, destinate ad aumentare il disordine e la conflittualità del mercato del lavoro universitario, senza produrre benefici. Si tratta di assunti la cui efficacia per il sistema è tutta da dimostrare.

La messa ad esaurimento della terza fascia, che continua nel solco della Legge Moratti, non appare né utile né ragionevole: né dal punto di vista dei ricercatori, né dal punto di vista di giovani e precari. Per i ricercatori, il ruolo ad esaurimento costringe all’individuazione di barocche soluzioni, che implicano o procedimenti valutativi straordinari, con concorsi riservati, risorse dedicate, in ogni caso appese a volontà politiche incerte e a risorse da trovare, che naturalmente scatenano appetiti e conflittualità; oppure alla riproposizione della pessima logica dell’ope legis.

Non è accettabile la proposta fatta in alternativa di utilizzare con diverse modalità la figura del “professore aggregato”, già prevista dalla legge Moratti, sarebbe un inquadramento giuridico confuso né docente né ricercatore; prevedibilmente avrà tutti i doveri dei docenti (maggiore carico didattico) senza aumenti economici vista la carenza di risorse ed il blocco previsto dalla legge finanziaria.

Per giovani e precari, l’asticella dell’ingresso nel sistema si alza alla figura dell’associato. Il futuro ricercatore a tempo determinato non è un salvagente credibile né per chi sta già nel sistema come precario né per i giovani che vi entreranno. Il mantenimento delle forme di precariato attuale costituisce un formidabile deterrente economico all’utilizzo dei contratti 3+3, soprattutto in carenza di risorse. E’ perciò prevedibile che il 3+3 sarà fondato su numeri piccoli e destinati ai privilegiati, e comunque temporalmente collocato a valle dei percorsi precari attuali, con ciò allungando i tempi di accesso al sistema. Anche se fosse una vera tenure track (cosa che non è, poiché manca la previsione di risorse e numeri), se non diventa il canale esclusivo o almeno prevalente di accesso in tempi ragionevolmente precoci, almeno prima dei 35 anni, è un’operazione velleitaria e decorativa, che crea più problemi di quanti risolve.

In realtà il DDL contiene obiettivi e assunti politici non dichiarati, coerenti con la visione di Università della maggioranza e con la riduzione della spesa e del ruolo pubblico nell’alta formazione.

In questa visione, il sistema universitario è destinato ad una severa contrazione quantitativa, sia del numero di Atenei sia del numero di docenti. Spogliando il tema di ogni coloritura propagandistica o ideologica, il Governo sa benissimo che il sistema sta correndo incontro ad un collasso selettivo, le cui vittime sono già note in ordine di caduta: dagli Atenei del Sud a quelli medio-piccoli a quelli a vocazione meno tecnologica. Il DDL guarda già a questo scenario, sia quando prefigura una governance autoritaria, sia quando annuncia la riscrittura del diritto allo studio, sia quando disegna una docenza ristretta su due fasce accompagnata da legioni di precari. E’ un’altra idea di Università, l’Università di Tremonti e Gelmini: piccola, costosa, elitaria, gestita con criteri privatistici.

Per questo, l’affannarsi di questi giorni, in vista della discussione al Senato, nella ricerca di mediazioni o soluzioni limitate a questo o a quell’aspetto di merito, magari inseguendo pezzi di consenso, è un atto di straordinaria miopia da parte di chi lo persegue. Nessuno vuole battaglie ideologiche o di principio, ma neppure si può ignorare la realtà dei fatti, rinchiudendosi in tecnicismi che trascurano completamente il quadro generale di prospettiva. Per questo sono tanto più apprezzabili le posizioni espresse, ad esempio, da quei ricercatori e da quei precari che tentano di proporre soluzioni ai loro problemi specifici, ma che le inseriscono nel quadro solidale del futuro dell’istituzione. Anche in questa circostanza, proporre visioni condivise che rifiutino gli aspetti corporativi è l’unica possibilità davvero utile sul piano strategico.

Ribadiamo la nostra proposta

Le dense implicazioni politiche dell’impianto del DDL a noi sembrano chiare, e per questa ragione riteniamo che o si riesce a modificarne radicalmente l’approccio, o è auspicabile che il DDL non veda mai la luce. Scorgiamo nel testo i semi di un modello di Università per noi non condivisibile. Nel ragionare di una proposta, è scarsamente produttivo cominciare dalla coda (messa ad esaurimento, due fasce o tre), per le ragioni già ricordate: si rischia di costruire una cattedrale di norme contraddittorie e di sofferta applicazione sulla base di postulati indiscutibili.

Modificare l’impianto vuol dire proporre coerenze tra priorità e scelte praticabili. Proviamo rapidamente a ricordarle limitandoci a due aspetti qualificanti e delicati:

  1. Noi crediamo che sia maturo il tempo per un ruolo unico della docenza. Le ragioni storiche che hanno portato a definire nel 1980 un modello basato su tre figure distinte ci pare che abbiano perso di senso. Un ruolo unico che ridefinisca diritti e doveri in modo più equilibrato ci pare che accompagni in modo più efficace sia l’idea di un’Università fondata sulla cooperazione, sia una rilettura necessaria del rapporto didattica-ricerca, sia un oggettivo slittamento dei tempi di accesso e di carriera che hanno subito un forte allungamento negli anni. Se quest’idea è condivisa, si può allora discutere sia delle modalità di progressione in carriera, sia dell’esistenza di fasce distinte. La progressione, in un ruolo unico, non può che fondarsi su valutazioni periodiche che fotografino risultati e maturità scientifica. L’infinito contenzioso sulle forme concorsuali verrebbe definitivamente archiviato. Deve esistere una distinzione in fasce? Nell’idea di ruolo unico, non appaia una provocazione, possono sparire anche le fasce, scandendo la carriera attraverso progressioni economiche. Se così non si ritiene che sia, si possono mantenere fasce distinte, che però debbono essere tre, non due, per evitare le complicate controindicazioni che abbiamo provato a descrivere.

  2. Nell’ipotesi di ruolo unico, una particolare rilevanza assume il percorso di reclutamento e accesso. Noi siamo per una vera tenure track come percorso post-doc, certa nei tempi, nei modi e nelle risorse dedicate. Vanno individuate modalità di programmazione e verifica che consentano di tenere insieme trasparenza e numeri del reclutamento. La tenure track deve diventare il canale esclusivo o principale di accesso, procedendo a vietare le forme precarie per l’attività universitaria, e definendo con grande nettezza l’ambito e i contenuti possibili dei contratti di insegnamento: limitati nel numero, circoscritti quanto a scelta dei contenuti all’interno dei corsi, adeguatamente retribuiti, verificati e valutati. Quest’ipotesi deve avere a corredo una fase transitoria sufficientemente lunga da consentire di offrire opportunità ai precari attualmente operanti negli Atenei, con la previsione di un numero di posti su base pluriennale, tale da offrire ai meritevoli l’ingresso in ruolo.

Queste due sintetiche ipotesi ci parlano di un’Università completamente diversa dallo schema del DDL 1905. Un’Università che vuole crescere, aperta, democratica, attenta al merito vero, non quello finto che è diventato la bandiera del Ministro. Uno schema che deve rovesciare gli assunti di base del Governo.

E per questo servono interventi normativi, servono soldi, serve una comunità accademica che metta sul tavolo l’orgoglio e la determinazione di chi sente di essere protagonista positivo di un’istituzione fondamentale. Tanti, in queste settimane, lo stanno facendo. Speriamo che sia un esempio contagioso.