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Anno III n. 17 del 15 marzo 2007
   
 

EDIZIONE SPECIALE

Verona. “Stati Generali” 23 e 24 febbraio 2007

Com’è noto il 23 e 24 febbraio 2007, a Verona, si sono svolti i cosiddetti "Stati Generali"dell’AFAM. Con quest’edizione speciale vogliamo dare conto degli interventi pronunziati da compagne e compagni che fanno parte della Struttura di Comparto (S.d.C.). Di seguito, quindi, gli interventi di:

De Gregorio Giovanna
Maestro - Docente di  Pianoforte - Conservatorio  Musicale di Palermo.     

Nonveiller Giorgio
Professore.  Docente di Pedagogia e Didattica dell’arte - Accademia di Belle Arti  di   Venezia.

Pulejo Raffaella
Professoressa - Docente di Storia dell’arte - Accademia di Belle Arti  di Milano.

Togni Giovanni
Maestro – Docente  di Clavicembalo - Conservatorio Musicale di Como.

Viola Luigi
Professore -  Docente di  Pittura - Accademia di Belle Arti di Venezia.

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Intervento di Giovanna De Gregorio

Sono stati la prima e unica occasione, dall’approvazione della Riforma ad oggi, che ha messo insieme per un confronto, tutte le componenti delle diverse istituzioni dell’AFAM.  Da lungo tempo, con il precedente il Governo, era stato richiesto di organizzare dei momenti per affrontare in modo globale, con competenza e la maggior condivisione possibili, i nodi della Riforma in modo che le varie decretazioni applicative fossero congrue, efficaci, funzionali al nuovo Sistema. Sarebbe stata evitata la gran parte di errori, contenziosi, incertezze e rallentamenti nelle decretazioni che segna l’impasse attuale. Ho trovato, quindi, positivo che finalmente si sia organizzato qualcosa, anche se lo spazio e l’opportunità di partecipazione per quanti intervenuti, come me, da semplici docenti, sono stati veramente ridotti. Già è stato un privilegio sapere dell’iniziativa in tempo e poter essere presenti per assistere alle due giornate, anticipate a proprio carico le spese del viaggio, del tutto ipotetico un rimborso. Solo  per una mattina (il sabato)  vi è stata opportunità per intervenire attivamente ai gruppi di lavoro  e al dibattito pubblico, avvenuti in contemporanea e in tempi strettissimi, con interruzioni appena si toccavano argomenti caldi…
Dal punto di vista operativo, oltre l’improvvisa crisi di Governo che rendeva ipotetico l’interlocutore politico, una certa approssimazione ha condizionato i lavori, a cominciare dalla determinazione dei gruppi annunciati erroneamente come “tematici”. Ho partecipato a quello di “Conservatorio, Accademia di Arte Drammatica, Accademia di Danza”. In mancanza di un canovaccio iniziale e con la gran mole di problemi inevasi in questi otto anni d’incertezza, l’ora e mezza a disposizione, più che ad approvare proposte concrete ed emendamenti precisi, è servita per confrontarci su alcune questioni d’ordine didattico. Un collega le ha elencate nel pomeriggio nella sua relazione. Tante le voci:  la necessità di chiarezza sui percorsi formativi, la necessità di riportare nei Conservatori la discussione degli ambiti disciplinari e  delle declaratorie per un’individuazione più coerente, l’omologazione dei requisiti di accesso degli studenti, la riconsiderazione delle quote di frequenza obbligatorie e la rimodulazione delle quote dei crediti in particolare per le discipline ex-fondamentali, la valutazione da parte delle docenze delle sperimentazioni effettuate e la messa a punto per mandarle al più presto ad ordinamento, l’omogeneizzazione del monte ore delle docenze, il riconoscimento dei titoli e la reale equiparazione a quelli rilasciati dalle università, l’istituzione di classi di concorso di discipline pre-afam presso le scuole di vario ordine e grado, i licei  musicali, l’istituzione di corsi di conservatorio abilitanti alle classi di concorso da istituire, l’istituzione dei dipartimenti di didattica (cosa differente dalla scuola di didattica), come in alcuni paesi europei la possibilità di doppia frequenza dei corsi di alta formazione (conservatorio-università, conservatorio-conservatorio, conservatorio-accademia).

Nel mio intervento personale, giù nell’auditorium, ho avuto a disposizione poco meno di tre minuti prima di essere interrotta. Ho evitato di parlare delle tematiche affrontate nel gruppo di lavoro che sarebbero state elencate più tardi.  Dopo un accenno all’eccellenza richiamata spesso da più parti ho affermato che più che ai cosiddetti centri d’eccellenza, valore assoluto e uniforme,  credo alle punte di eccellenza. Vengo da una realtà, per alcuni aspetti disastrata, dove a fronte di gravi problemi esistono innegabili punte d’eccellenza, nonostante ostacoli inimmaginabili e pochissimi mezzi.  Similmente, ritengo che accada ovunque.  Se si vuole parlare di qualità, e la qualità può e deve essere curata, valutata e migliorata sempre, allora si deve parlare di docenza e di didattica. 
Quale nodo centrale ho posto la necessità improrogabile di affermare nuovamente la centralità della docenza come anima e motore dell’AFAM. Il nostro lavoro, e di riflesso la Riforma, per camminare  ha bisogno delle gambe e delle braccia, del pensiero e del cervello, del cuore e dell’anima, della creatività, della professionalità, della responsabilità, del parere di ogni docente. La nostra docenza in quanto tale, non importa se di prima, seconda fascia o a contratto, deve recuperare le prerogative proprie della docenza, a maggior ragione se di Alta Formazione, altrimenti l’art. 33 della Costituzione diventa un vuoto enunciato di principio astratto.
Docenza come partecipazione consapevole, responsabilità decisionale, diritto dovere d’ideazione, programmazione, valutazione,  realizzazione, delle attività didattiche, artistiche e di ricerca.
Questa qualità dell’essere docente è condizione essenziale per un rapporto paritario con l’Università e con l’Europa. L’affermazione della docenza è garanzia e certezza per il singolo professore/maestro, garanzia e certezza per gli organismi rappresentativi, garanzia e certezza per chi dirige le istituzioni.
Ridare valore alla partecipazione ed al principio di responsabilità significa necessariamente rimettere mano alle decretazioni manchevoli del  DPR 132 e del DPR 212, rivedere ambiti e limiti tra componente didattica e componente amministrativa, ricomporre l’attuale scollamento tra gli organi, tra C.A. e singolo professore, individuare con chiarezza le strutture didattiche e le competenze decisionali,  garantire ai singoli professori partecipazioni collegiali qualificate.

Scaduto il tempo, ho preso rapidamente spunto dal segnale del mio vecchio cellulare vibrante. Non vorrei per l’AFAM la stessa fine: per realizzarlo ci sono voluti ricerca scientifica, design, arte e musica seppur  ad un livello rudimentale per una tecnologia oramai obsoleta.
Oggi i mezzi sono notevolmente mutati e in rapida evoluzione: vi è l’opportunità di trasmettere e comunicare in tempo reale, da un continente all’altro, prodotti artistici di grande qualità; vi è la possibilità di imparare quanto ideato, studiato, ricercato da altri e di trasmettere quanto si idea, studia, ricerca; è possibile studiare, insegnare, produrre, ricercare insieme con altri all’altro capo del mondo; è realistico suonare dal vivo, insegnare dal vivo ad un pubblico lontanissimo e, comunque, vicino, ossia trasmettere e fissare contenuti artigianali e artistici con mezzi tecnologici; è possibile collegare tradizione ed evoluzione, mettere in connessione arte e sviluppo. La Comunità didattico- artistica è notevolmente più ampia, il confronto di idee e qualità di realizzazione è immediato.
L’autoreferenzialità è anacronistica quando la produzione avviene normalmente attraverso la compartecipazione di professionalità ricadenti in ambiti differenti. I Dipartimenti così come disegnati dal DPR 212, nelle funzioni assegnate e le aggregazioni operate, là dove non si prevede interazioni trasversali tra le discipline, denotano incredibile poca funzionalità, seppur in prima applicazione! A titolo banalmente esemplificativo, non è previsto un Dipartimento di Teatro, già liberamente presente così come altri dipartimenti in molte istituzioni, dove sono necessarie le partecipazioni di discipline dei vari ambiti del Conservatorio, delle Accademie, così come le interazioni con le Istituzioni del territorio e con le Università. Costretta, mio malgrado, a concludere ho auspicato che vi fossero altri incontri, più puntuali, pragmatici, mirati alla risoluzione dei problemi e maggiori opportunità di partecipazione delle docenze.

Della mia scaletta preventiva mancava ancora parecchio:
Attraverso la connessione virtuosa di arte e tecnologia, creatività e  ricerca, altri paesi hanno rilanciato la propria economia. E noi ancora raccontiamo, quasi per convincere noi stessi, che siamo bravi ed utili. Invece dobbiamo pretendere quei presupposti che ci consentano di ottenere risultati dalle nostre tradizioni ed esaltare le nostre qualità, raggiungendo visibilità, riconoscimento, risorse. Dobbiamo attivare tutte le connessioni possibili per mettere in circolo le competenze tra le nostre diverse istituzioni, in circolo con l’università, in circolo con la Ricerca, in circolo con il mondo della professione e dell’imprenditoria, in circolo con l’Europa e con la comunità didattico-artistica degli altri continenti.

Ritrovare i luoghi e i mezzi del confronto nella nostra vita didattica e istituzionale può riportare alla dialettica della mediazione, creare le condizioni affinché si riducano i contenziosi generati da dinamica partecipativa ridotta. Le regole della politica, ma anche dell’economia e della qualità, pretendono che gli organismi elettivi debbano rendere conto del loro mandato, debbano poter essere sfiduciati, così come supportati, o rieletti. Occorre prevedere che decisioni errate o incongrue possano essere serenamente messere in discussione e rivisitate, secondo i meccanismi consolidati della democrazia accademica. Le regole basilari  della dialettica istituzionale non possono e non devono dipendere dall’ubicazione geografica: chiarire ambiti e limiti di responsabilità significa anche ritrovare efficacia e funzionalità su tutto il territorio. 

Riportare la docenza al baricentro istituzionale ha quale prima conseguenza l’affermare quale suo fine la qualità della didattica e porre la crescita dello studente e gli sbocchi professionali tra gli obiettivi. La produzione artistica correlata alla didattica è un mezzo affinché lo studente possa inserirsi nel mondo del lavoro e passa anche attraverso l’interazione con Teatri, Enti di produzione,  Enti pubblici, Aziende, MPA. La creazione, come la conservazione dei beni artistici, non sempre corrisponde alle logiche di mercato e, senza scomodare filosofie e poetiche di adorniana memoria, nell’insegnamento dell’Alta Formazione alle Arti e alla Musica, così come per le Università, è obiettivo inderogabile l’autonomia di pensiero e di ricerca. Servono criteri chiari e trasparenti per convenzioni e accordi, regolamento ex 508 ancora mancante,  affinché si diano reali opportunità all’allievo, coniugando esperienze professionali di alto profilo con i requisiti della formazione accademica e i diritti dello status di studente.

L’aumento del 30% dell’utenza a organici immutati ha significato, inevitabilmente, meno tempo disponibile per la didattica a misura specifica del singolo studente, una limitazione del rapporto flessibile e personalizzato che è stato (ed è ancora ovunque nel mondo) il fondamento basilare della docenza nel settore delle arti, una limitazione dell’essere “maestro”, una riduzione di qualità. Tenere diversi corsi, assumere rilevante numero di ore aggiuntive comporta meno tempo per lo studio giornaliero e l’attività artistica e la  ricerca personali del docente-musicista, ossia una riduzione di qualità.
I tempi del corpo e dello spirito, del pensiero e dell’azione creativa, perché possano camminare di pari passo, sono fondamentali per il nostro lavoro. Interrogarsi sul fine, sulle competenze dei nostri insegnamenti, nell’ambito professionale esecutivo-interpretativo, che è anche la più parte dei nostri corsi, obbliga a tenere nella massima considerazione l’esperienza passata e riaffermare quali le centralità delle discipline rilascianti titolo, cosa aggiungere, levare e  cosa mantenere per migliorare.

Diventa improrogabile ripartire dai contenuti e non dai nomi, rivisitando il DPR 212, là dove è necessario ritarare i crediti, ridefinire congruamente aggregazioni disciplinari, scuole e dipartimenti, declaratorie, determinare strutture didattiche e competenze.  E’ impensabile utilizzare terminologie antiche dandovi significati differenti dalla  tradizione storica e, contemporaneamente, allontanarsi da quanto è universalmente riconosciuto nel mondo universitario: equivale ad una crisi d’identità e ad un’ulteriore marginalizzazione del sistema AFAM.
Forti dell’esperienza sperimentale, oggi, occorre valutare l’efficacia dei corsi riformati, paragonare con il vecchio ordinamento nelle competenze in accesso e nelle competenze in uscita.
Se di corsi superiori si tratta non si può prescindere da requisiti d’ingresso equivalenti almeno a quelli dei percorsi ordinamentali certificati di livello inferiore e medio (dove previsto), riaffermando il valore della formazione specifica di base e dei relativi titoli. Pretendere che i corsi di base siano a carico dello Stato e che coprano tutte le fasce scolari: nei corsi propedeutici, nei corsi ad esaurimento dei Conservatori previsti dalla 508, nei corsi di base delle scuole di ogni ordine e grado quando attivati, con una certificazione di titoli riconosciuti dallo Stato italiano.
Gli studenti dei corsi pre-accademici hanno diritto allo studio come gli studenti dei corsi di Alta Formazione e il diritto di cittadinanza del giovane musicista va tutelato nella quantità e nella qualità. Aggiornare e aggiungere passa dal mantenere quello che vale e potenziare l’esistente.

Separare l’AFAM dall’Università, come oggi, paradossalmente, sta avvenendo per normative esitate e impossibilità di comunicazione, confronto, riconoscimento reciproco, non è la strada da percorrere.  Mi aspetto che finalmente possiamo lavorare con serietà e competenza per portare a compimento la riforma dell’AFAM a partire dalla rivisitazione normativa di riferimento, il tempo della sola buona volontà  è oramai scaduto. GDG

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Intervento di Giorgio Nonveiller

Ho avuto il piacere di sentire ieri che tutti i rappresentanti sindacali si sono pronunciati a favore del pieno ingresso delle Accademie e dei Conservatori nell’Università, cercando di uscire dal pericoloso guado nel quale le nostre istituzioni sono state collocate istituendo il comparto dell’Alta Formazione Artistica e Musicale (AFAM). Tale Direzione generale ha avuto una funzione nel cambiamento di Ministero, dato che nessuno di noi può avere nostalgia dell’Ispettorato all’Istruzione artistica della Pubblica Istruzione che ha sostituito. Lo scopo dell’AFAM però è quello di costituire un momento di passaggio, onde evitare un impatto eccessivo con le strutture dell’Università: così almeno ci è stata raccontata dai parlamentari delle due Commissioni cultura della Camera e del Senato che hanno contribuito alla formulazione della legge 508/1999, anche se in altri paesi europei per il passaggio dalle vecchie Accademie alle Facoltà di Belle Arti nessuno si è sognato di costituire strutture diverse da quelle che afferiscono direttamente all’Università.
Ora se pensiamo all’appuntamento europeo del 2010 mi sembra evidente che la permanenza dell’AFAM può essere solo giustificata dai tempi diversi che ad esempio i Conservatori di Musica, l’Accademia di Danza e l’Accademia di Arte Drammatica possono avere rispetto alle Accademie di Belle Arti, e che l’ingresso pieno nell’Università deve comportare le stesse peculiarità di piena autonomia – poiché la nostra è ancora alquanto limitata - degli organi di governo (nonché finanziari e amministrativi) e di quelli preposti alla ricerca e alla produzione, nei diritti e nei doveri, come quelli di ogni altra Facoltà.
Ritengo che si siano persi tempi preziosi dall’approvazione definitiva della legge ad oggi, quasi otto anni (senza alcun rispetto dei tempi previsti dalla legge medesima) senza attivare tutte quelle strutture che consentirebbero un migliore funzionamento delle nostre istituzioni, cercando invece di limitare la nostra autonomia con strutture decisamente inadeguate. Voglio soffermarmi, a questo proposito, solo su un punto: quello del Decreto ministeriale, alquanto zoppicante, sul quale sono stati modellati gli statuti delle nostre istituzioni: la più grave carenza è quella di aver ridotto il Collegio dei Professori a un puro organo consultivo, deferendo tutte le competenze al Consiglio Accademico (l’analogo del Senato Accademico, che esiste pure nelle mono-facoltà (fino ad un recente passato anche l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia). Non solo, ma lo Statuto dell’Accademia di Venezia prevede all’art. 9, comma 2, che il Collegio dei Professori possa essere convocato oltre che dal Direttore, che lo presiede, “anche per richiesta della maggioranza assoluta dei suoi componenti” e al comma 3 “formula […] richiesta di convocazione del Consiglio Accademico, motivata da questioni rilevanti e urgenti, espressa da due terzi dei suoi componenti”. Caro Ministro, caro Sottosegretario: un ministero (in questo caso chi vi ha preceduto) che non si è accorto che senza il rispetto delle minoranze non v’è democrazia, probabilmente sta pensando al altro. Dall’Assemblea condominiale alle istanze parlamentari vale sempre il terzo dei componenti per chiedere una convocazione (qualche volta si opta per i due quinti, ma mai per i due terzi o per le maggioranze assolute). Si può star certi altresì che i Collegi dei Professori nelle Accademie e nei Conservatori, con i meccanismi che ho segnalato, raramente saranno convocati.
Invece un Collegio dei Professori in un’Accademia dovrebbe essere l’equivalente di un Consiglio di Facoltà, il quale nell’Università ha sempre un ruolo importantissimo di programmazione e di coordinamento. Se prendo quello dello statuto vigente dell’Università di Venezia (Ca’ Foscari), leggo all’art. 34, sunteggiando velocemente, che: a) delibera a maggioranza assoluta dei propri componenti; b) formula proposte di ordine ai piani di sviluppo dell’Università; c) delibera sulle richieste dei posti di ruolo docente da inoltrare al Senato Accademico sulla base delle proposte approvate dai Consigli di Dipartimento e dei Collegi didattici; d) delibera la chiamata dei docenti di ruolo su proposta dei Consigli di Dipartimento interessati; e) attribuisce le responsabilità didattiche; f) delibera il passaggio di responsabilità didattiche e di titolarità di un docente a un settore scientifico disciplinare diverso da quello di appartenenza; g) approva le relazioni trimestrali sull’attività scientifica; h) coordina annualmente le didattiche programmate; i) organizza attività culturali; l) esprime pareri sui congedi per ragioni di studio; può costituire al proprio interno una giunta.
Congestionare invece un Consiglio Accademico di tutte le incombenze (mentre dovrebbe fungere da Senato Accademico) non porterà certamente a buoni risultati in una situazione nella quale sono state ‘ibernate’ le Direzioni per circa un decennio – in attesa della riforma –, dove certe rielezioni, anche poco auspicabili, sono diventate quasi scontate, poiché hanno agevolato molti di quei comportamenti che non esito a definire in molti casi neo-feudali, o comunque di tipo ‘monarchico’. Ci si stupisce, in mancanza di regole chiare e articolate, spesso non rispettate neanche da chi ha la responsabilità di ciascuna istituzione, in vari casi ancora prive di organi di garanzia - non certo compensate dalla disattenzione del Ministero, quando interpellato - che certe vertenze finiscano nelle Aula giudiziarie? O non è meglio ripensare l’autonomia in maniera più articolata e completa, prima che certi guasti abbiano portato a situazioni ingovernabili?

2. Se ci si pronuncia a favore della piena valenza universitaria della nostra riforma, bisogna avere chiaro il percorso, che è innanzitutto la soluzione del nodo della docenza universitaria che, come si sa, implica obbligatoriamente che si bandiscano dei concorsi riservati per accedere alla nuova docenza di prima e seconda fascia, quindi dedicati almeno in prima e seconda battuta solo a coloro i quali sono nell’attuale ruolo a esaurimento. So benissimo come è andato il passaggio dalle vecchie Accademie alle Facoltà di Belle Arti in Spagna, ad esempio; non vi è stato nessun dramma, poiché non vi è alcun docente che abbia perso il posto, anzi quasi tutti sono entrati nei nuovi ruoli. Chi non ha concorso è rimasto nei ruoli della ‘vecchia Accademia’, conservando esattamente l’insegnamento che aveva esercitato precedentemente.
Va da sé che la soluzione di questo nodo risolverà anche l’altro nodo, cioè la piena validità del titolo di laurea che lo studente potrà acquisire alla conclusione del proprio ciclo di studi. Che dovrà essere un titolo di dottore, come in tutto il resto del mondo: per favore non diciamo fuorvianti sciocchezze, quelle stesse che abbiamo riscontrato nel dibattito in Commissione cultura e nelle aule parlamentari, a proposito della 508/1999, sintomo di un’insufficiente attrezzatura culturale in fatto d’arte e di “istituzioni di alta formazione” da parte di parecchi politici.
 Ho sentito invece parlare di ruolo unico della docenza, che va assolutamente respinto poiché rischia di diventare il meccanismo per bloccare la riforma universitaria. Che l’assistente sia diventato un docente associato non deve portare all’abuso di caricare di aspettative questa nuova figura, dicendogli che può insegnare più discipline, operando scelte d’insegnamento senza alcun concorso nemmeno interno (come per ogni affidamento che si rispetti) dato che le competenze specifiche acquisite nel proprio lavoro vanno comunque dimostrate con le pubblicazioni (o le esposizioni) del caso.
Ciò può far comodo a certi Direttori per guarnire insegnamenti a costo zero, incrementando così non soltanto l’istituto del favoritismo a sfondo elettoralistico, ma soprattutto concorrendo a un notevole abbassamento del livello stesso dell’insegnamento, se certe regole non venissero rispettate.
Naturalmente so bene che alcuni ex assistenti sono meglio dei loro titolari, ma ve ne sono in cambio altri che difficilmente sono in grado di svolgere più insegnamenti, al di là di quello (o quelli) per il quale hanno maturato le loro effettiva competenze. Si rischierebbe di giocare sulle frustrazioni di carriera, ma anche su ambizioni sbagliate. Il corrispettivo di tutto ciò esiste anche all’Università: ed è il ricercatore, quasi sempre sovraccaricato di oneri di docenza senza un corrispettivo economico adeguato, con la differenza che si tratta di competenze che sono state sottoposte a ben altre verifiche.
 Qui scatta il problema contrattuale irresoluto dell’orario, poiché parlare di 250 ore di didattica + 100 ore per partecipazione a organi collegiali, commissioni, ecc. è giusto solo se non si interpretano le 250 ore come un monte ore di lezioni frontali, ma come l’insieme dei compiti legati al servizio di docenza: lezioni, ricevimento degli studenti, discussione e correzione delle tesi e alcuni aspetti organizzativi dell’insegnamento.

E’ chiaro che non mancano gli abusi nell’interpretare le 250 ore come lezioni frontali, mentre i moduli universitari sono di 30 o 60 ore annue. Arrivare alle 120 ore oggi è un fatto eccezionale. E giustamente. Come si può pretendere che vi sia un’attività di ricerca  e di produzione quando invece si creano condizioni tali da rendere difficilissimo l’aggiornamento scientifico e disciplinare del docente, sottovalutando gli effettivi tempi di preparazione delle lezioni, che naturalmente non sono computabili nelle 350 ore di cui si è detto sopra?

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Intervento di Raffaella Pulejo

Professori, Direttore Generale:
le leggi della politica sono spietate, ci ha spiegato ieri sera il Sottosegretario Dalla Chiesa, si fondano sui grandi numeri e quando i numeri sono piccoli, l’unica merce di scambio è la qualità.

Purtroppo, il discorso del sottosegretario esprimeva amaramente la scarsa qualità rilevata dalla sua ricognizione delle istituzioni AFAM, la vacuità che corrisponde a quel concetto di “eccellenza” di cui il Paese si è ubriacato, rivendicato da docenti e Direttori AFAM, evidentemente come compensazione a quei “piccoli numeri” che ieri mi sono apparsi davvero come  l’unica spiegazione plausibile di un’attitudine politica che, nei confronti di questo settore,  oscilla tra l’indifferenza e l’accanimento giuridico.

Direttore generale: la qualità delle istituzioni AFAM, insieme ai suoi limiti, è materia che Lei conosce meglio di chiunque altro, e non avrò certo la presunzione e l’ingenuità di difenderla davanti a Lei, né di autolegittimare  la qualità della docenza autopromuovendola al livello della docenza universitaria.

Infatti, proprio Lei, Direttore, nel discorso introduttivo ai lavori di questo convegno, esprimeva la “promozione” delle istituzioni AFAM da parte di una popolazione studentesca che  negli ultimi tre anni è cresciuta (da 50.000 a 73.000 studenti) a dispetto delle difficoltà in cui versa il settore: sedi poco idonee alle esigenze della didattica anche quando hanno luogo in palazzi storici, incertezza riguardo la spendibilità dei titoli rilasciati, mutevolezza dei percorsi formativi che spesso hanno comportato cambiamenti nei piani di studio in questi sette anni di sperimentazione, segreterie  oberate di lavoro e impossibilitate a soddisfare le richieste dell’utenza. Tutti aspetti di criticità messi in evidenza dagli interventi degli studenti, che non possiamo che sottoscrivere, anche quando la critica si riversa su una parte della docenza o dei sindacati, a volte con aggressività, altre con lucida maturità e volontà costruttiva.

I numeri in questo caso, benché non esprimano grandezze appetibili dal punto di vista elettorale (paragonabili, intendo, a quelle di altri settori della formazione universitaria), sono significativi: rappresentano un  gradimento da parte dei destinatari ultimi dell’AFAM, e cioè degli studenti, che supera nei fatti i disagi e lo scontento, un gradimento che riconosce alle istituzioni AFAM il primato nella formazione artistica. 
Riconoscimento che viene anche dall’estero, se è vero, come è stato fatto notare, che le istituzioni AFAM ospitano la più alta percentuale di studenti stranieri. A Brera, in larga parte anche provenienti da paesi extraeuropei, dall’Asia, dai Paesi dell’est europeo, ma anche, di recente,  dalle parallele istituzioni dell’area anglosassone. Molti di loro arrivano da quelle istituzioni alle quali spesso abbiamo guardando con invidia, man mano che i programmi di scambio Erasmus ci  permettevano (studenti e docenti) di conoscere sempre meglio e paragonare alle nostre.
Per gli studenti stranieri gioca certo la forza di attrazione del  patrimonio artistico e culturale italiano, ma non si può non riconoscere che un’altra parte di merito vada ai docenti di queste istituzioni.

E ci sarebbe piaciuto, Direttore Generale, che Lei  avesse difeso questa qualità, avesse permesso ai rappresentanti del Governo insediati da un anno,  e ai quali auguriamo di poter proseguire il loro mandato, di conoscerla  e apprezzarla, ancora di più a causa delle condizioni complesse in cui questo comparto opera.
Abbiamo invece sentito aggiungere rimproveri ai rimproveri, alla faccia di tutti quei docenti che non affollano “il suo tavolo di lettere di protesta con litigi e accuse reciproche” (o talvolta per abusi un po’ più gravi?), e che sono,  come è evidente, la maggior parte,  pilastri di quelle istituzioni che troppo spesso vengono disprezzate allo scopo di sostenerne  l’inadeguatezza rispetto alle pretese universitarie.
Approdo comunque ineludibile, sancito dalla Legge 508/99,  che dovrà essere in alcuni punti rivista in Parlamento, ma che esige di essere realizzata nel suo portato di fondo: il riconoscimento dei requisiti universitari delle istituzioni AFAM, l’adeguamento ai parametri universitari dello stato giuridico ed economico della docenza, il reperimento di risorse per alimentare il settore della ricerca, la realizzazione dell’autonomia finanziaria  per consentire l’imprenditorialità delle iniziative di produzione.

E’ una litania che recitiamo tutti a memoria. Ma non ho sentito con abbastanza forza sottolineare quel che Lei, Direttore, sa meglio di chiunque altro e che ogni politico necessariamente conosce, e cioè che una riforma che vuole traghettare le istituzioni dell’alta formazione verso l’università, è impossibile a costo zero. Quel che non sento dire è che una riforma a costo zero, a fronte di un allargamento dell’offerta formativa che ha portato il numero delle discipline insegnate da 31 a 400,  senza un adeguamento dell’organico (rimasto incastrato nei ruoli ad esaurimento da sette anni), può essere realizzato solo nell’illegalità,  calpestando i criteri minimi del diritto del lavoro. Il corpo docente di prima e seconda fascia, ha moltiplicato i corsi di insegnamento, senza modifiche stipendiali , o attingendo le ore aggiuntive dai fondi di istituto. Ci si stupisce che in qualche caso i bilanci risultino inverosimili? Si chiede l’impossibile e ci si stupisce del degrado, nelle rare situazioni in cui appare? E che dire dell’assenza dei docenti di seconda fascia negli organi di rappresentanza, sulla base di un’interpretazione restrittiva della 132, che ha permesso ai Consigli Accademici di deliberare in assenza di una parte del personale interessato alle trasformazioni in atto?

Ci si stupisce della quantità di ricorsi, proteste e litigi? Io, Direttore, mi stupisco del contrario: data la situazione, qualunque altra categoria avrebbe dato molto da lavorare ai giudici del lavoro, se solo avessimo avuto  “i grandi numeri”! Difficile dare spiegazione di tanta pazienza . Non passività Direttore, pazienza. Pazienza, senso di responsabilità e passione. Poiché questa categoria di lavoratori ha una plus valore che non si misura solo in ore di lavoro e salario ma in autentica passione verso il proprio lavoro e verso l’oggetto del proprio lavoro. Ed è questo un valore aggiunto, male utilizzato, sfruttato in senso salariale, anziché valorizzato.
Io sono molto orgogliosa di lavorare a Brera dove in questi anni non solo ho insegnato, ma ho potuto svolgere ricerca e studiare. Quando parlo di ricerca, non mi riferisco a quella individuale (che diamo per scontata come ogni professore di ogni ordine e grado  sa bene), ma di quello che si intende per ricerca all’università e cioè ricerca organizzata e coordinata, di equipe,  finanziata, i cui risultati devono essere portati davanti alla comunità scientifica, pubblicati e valutati. Chi scorra la bibliografia sull’arte italiana dell’ottocento e primo novecento può constatare quale sia stato il contributo a livello internazionale degli storici dell’arte che in questi anni hanno lavorato a Brera. O nell’ambito dell’arte contemporanea quali sono oggi gli artisti accreditati a livello internazionale dal sistema dell’arte. Questo è  quello che  posso testimoniare per gli anni che mi hanno visto partecipe insieme ai colleghi. E come molti miei colleghi, se interrogata saprei portare non “lamentele”, ma contenuti concreti.

Ma mi accorgo che il sottosegretario Dalla Chiesa di queste esperienze è stato poco informato, e più che  dal nostro lavoro è colpito dalle terne dei presidenti espresse da alcune istituzioni che hanno in esse hanno indicato politici e assessori. Io credo che la politica non debba limitarsi a scandalizzarsi, ma abbia il dovere di analizzare i fatti. Pur condividendo il giudizio del sottosegretario sui casi riferiti, io penso che la scelta di alcune istituzioni di candidare i politici, vada  letta come l’estremo tentativo di legare a sé , magari attraverso la presidenza, l’attenzione del potere politico che, come  ci è stato spiegato è indifferente alle richieste che non sono sostenute dai “grandi numeri”.

E il tema dei presidenti mi porta a riflettere sul tema dell’autonomia, che nelle nostre istituzioni si connota come una libertà vigilata. Abbiamo davvero bisogno di presidenti, a differenza dell’università che non ne prevede la presenza? A quale scopo? Ben inteso: non ne sto escludendo in assoluto la presenza. Forse,  proprio in virtù dei mutamenti in atto nell’Amministrazione pubblica e nella consapevolezza che la ricerca e la produzione non possono interamente contare sulle risorse dello Stato, potremmo orientarci verso la costruzione di un sistema misto, come nelle università anglosassoni in cui la figura del presidente esiste  con la funzione di fare da ponte con il mondo della finanza e dell’industria (i “grandi numeri”).
A mio parere risulta altrettanto avvilente la scelta da parte del Ministro dei 6 componenti nominati nel CNAM, fra cui figura anche una stilista, a consacrare la venerazione per il mondo della moda anche nel luogo destinato alla elaborazione delle leggi e della giurisprudenza che governeranno il passaggio all’università delle istituzioni AFAM. Prevedibilmente pochi fra i vip nominati avranno tempo e voglia di presenziare ai lavori del CNAM, come allo stesso modo diserterebbero quelle del CUN, poiché altro è il loro (rispettabile ma differente) lavoro.

Il nostro lavoro c’è, ed è documentato nelle bibliografie, come nel lavoro degli artisti che “hanno superato i maestri”.  Sta a coloro che ci governano, adesso, di non realizzare nelle accademie e nei conservatori, il peggiore degli aspetti dell’università italiana: la fuga dei cervelli e dei talenti.

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Intervento di Giovanni Togni

Uno dei problemi più spinosi riguardo all’attuazione della Riforma dei Conservatori risiede nella modalità di reclutamento del corpo docente, sia per l’affacciarsi di nuove discipline finora”vietate” nei Conservatori, sia perché allo stato attuale esistono insegnamenti presenti in misura ipertrofica accanto ad altri esistenti in forma sporadica e di difficile sopravvivenza qualora non affiancati da un dipartimento afferente in termini di ricerca, obiettivi formativi e produzione.
Vorrei riallacciarmi a questo punto a quanto emerso nel convegno di due anni fa a Milano: il gruppo di studio sulla musica antica, di cui ero relatore, segnalava la necessità, in primis, di prevedere all’interno del DPR sugli ordinamenti didattici un dipartimento di “musica antica”, rivendicando una specificità formativa comune ad alcune discipline; questa proposta avrebbe potuto svolgere una funzione trainante per quanto riguarda la modifica del concetto stesso di dipartimento presente nella tabella A del DPR 212/05, inteso attualmente come affinità di settore strumentale e non come intreccio di discipline che hanno finalità scientifico-didattiche comuni, in analogia a quanto avviene nel mondo universitario.
Poiché sabato mattina uno degli argomenti discussi con il dott. Civello riguardava le modalità di reclutamento del personale (docente) AFAM, il sottoscritto chiedeva se per i nuovi insegnamenti previsti nella tabella delle declaratorie si debba far ricorso esclusivamente  a docenze a contratto, con inevitabile aggravio di spesa sul fondo di funzionamento di un Istituto , o se sia possibile prevedere questi nuovi insegnamenti (ad es. Violino barocco) sulla quota di cattedre a tempo determinato in pianta organica, qualora fosse verificato che non esistono le competenze necessarie all’interno di un Conservatorio.
La risposta del dott. Civello ha aperto sicuramente una speranza a chi opera nel settore della musica antica: con i nuovi ordinamenti, di prossimo arrivo, sarà possibile inserire a tutti gli effetti le nuove discipline (come ad esempio violino barocco) nella pianta organica di un Conservatorio. Restano aperti però  i problemi in riferimento a: 1) con quali regole il Ministero pensa di valorizzare le competenze presenti nei Conservatori? 2) Qualsiasi trasformazione in atto priva di un nucleo di valutazione che dia indicazioni in termini di riequilibrio locale e nazionale potrebbe portare ad una situazione ancora più critica di quella attuale: potranno farcela i Conservatori in questa totale assenza di indicazioni da parte del Ministero?

A questo punto servono indicazioni e direttive chiare che consentano ai docenti di comprendere quale futuro si vuole dare al sistema e quali strumenti e risorse si intendono mettere a disposizione da subito per valorizzare la professionalità esistente.

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Intervento di Luigi Viola

Gli Stati Generali dell’Afam, convocati a Verona il 23 e 24 febbraio scorso dal Ministero dell’Università e della Ricerca hanno mostrato la pomposa quanto ingannevole pretenziosità dell’assunto, del tutto nominalistico, che non ha trovato efficacia alcuna nell’affrontare i veri nodi irrisolti della riforma delle Istituzioni di Alta Cultura artistica e musicale, evidenziando invece l’assenza di adeguata progettualità e il carattere di navigazione a vista che il Ministero ha adottato per Accademie e Conservatori.

Evocando con linguaggio allusivamente rivoluzionario lo stato di emergenza che precede un profondo cambiamento e una radicale trasformazione del sistema, in questo caso accademico, si è invece compiuta una vera azione di pompieraggio, evitando anche semplicemente di nominare le questioni prioritarie, tuttora irrisolte sebbene fondamentali, quali sono la piena corrispondenza dell’Alta Formazione artistica e musicale al sistema universitario italiano ed europeo dal punto di vista dello stato giuridico - economico della docenza e dei titoli di studio rilasciati, l’accesso al finanziamento della ricerca, l’accesso all’edilizia universitaria, per citare le più evidenti.

Questioni che hanno la precedenza assoluta e che sole qualificano seriamente un’autentica azione riformatrice. E’ del tutto evidente come l’interlocuzione su problematiche così vitali, maturate ormai in una generale e pluriennale consapevolezza da parte di docenti e studenti delle Accademie, non possa essere delegata semplicemente alla funzione burocratica esercitata da un solerte Direttore Generale del Ministero, ma deva trovare quella legittima espressione politica di alto profilo istituzionale che non può che spettare al Governo da una parte, nella persona del Ministro interessato, al Parlamento dall’altra.
Per questo motivo ritengo sia stato del tutto fuori luogo, inadeguato alla gravità della situazione ed irrispettoso dei docenti e degli studenti delle Accademie e dei Conservatori il “question time” sviluppato dal Direttore generale del Miur dottor Giorgio Bruno Civello, in una sorta di paradossale gioco al depistaggio su temi secondari, senza respiro e senza futuro, ricorrendo di volta in volta alle armi retoriche del paternalismo, dell’interruzione, del rintuzzamento, del commento sopra o sotto traccia, limitando in certi casi perfino la corretta espressione del diritto democratico ad esprimere le proprie opinioni.

Un atteggiamento autoritario e centralista misto a paternalismo - già propugnato nella fase di preparazione del convegno attraverso la carente informazione istituzionale fornita sull’evento e l’esclusione di fatto di gran parte della docenza dal medesimo – un atteggiamento che non rende giustizia all’impegno artistico, culturale e istituzionale espresso in questi anni da molti colleghi, ma soprattutto denigratorio di quella vera autonomia cui le istituzioni accademiche hanno diritto in nome della Costituzione e che si vuole qui invece sorvegliare, recintare, impacchettare.

E’ apparso chiaro l’intento di convocare le istituzioni a dire “si” a programmi di scarso profilo e di breve respiro, evitando accuratamente di dare spazio a posizioni critiche più articolate, che tenterò qui di riassumere brevemente.

Sono trascorsi ben sette anni dall’approvazione della L. 508/99 di riforma delle Accademie e dei conservatori di Musica, una legge essenziale per aver consentito il formale riconoscimento dell’appartenenza dell’Afam al sistema della formazione terziaria quale sede primaria dell’alta formazione in campo artistico e musicale, ma al medesimo tempo esiziale per non aver previsto una reale, concreta omogeneità con il sistema universitario e per non aver indicato un destino certo per studenti e docenti, negando ai primi il titolo di laurea riconosciuto in tutti i paesi d’Europa (e del mondo), tale non essendo infatti neppure il diploma accademico di cui alla successiva Legge n. 268 del 22/11/2002 di conversione del D.L. 212/02 e privando i secondi, - collocati in un semplice ruolo ad esaurimento - della previsione di uno stato giuridico universitario coerente con le funzioni formative e di ricerca da essi esercitate, con l’introduzione delle conseguenti norme transitorie che ogni vera Legge di riforma che non sia un volgare trucco o un inganno, deve possedere.
Infine una legge a costo zero, con tutto ciò che può significare tale condizione e che infatti ha significato in questi anni in cui si sono sperimentati nuovi curricoli disciplinari ed indirizzi di studio aprendo l’offerta formativa a dismisura e talvolta senza controllo, basandosi unicamente sulla disponibilità e “buona volontà” dei docenti e degli studenti.
Assumendo i docenti su di sé, particolarmente quelli di II° fascia attratti dalla speranza di un passaggio di ruolo e funzioni, ma anche quelli di I° fascia oggi privati della preziosa collaborazione degli ex assistenti, mediante la strutturazione dell’insegnamento in moduli, ulteriori pesanti carichi didattici senza adeguate garanzie economiche e giuridiche, pagando i costi della “riforma” a costo zero con le proprie stesse risorse contrattuali, come del resto fanno gli studenti che, attraverso l’aumento dei contributi, pagano un costo elevato senza avere in cambio quella qualità e quantità dei servizi correlati alla didattica cui avrebbero diritto.

Questi soni gli argomenti che avrebbero dovuto essere affrontati a Verona. La loro soluzione non sta in pasticciate manovre amministrative, in compromessi sindacal - burocratici, ma nell’assunzione di una nuova responsabilità legislativa che proceda ad integrare il quadro giuridico con nuove norme di riferimento in grado di dare risposte idonee. Nei due rami del Parlamento sono attualmente depositate due proposte di legge al riguardo, della deputata De Simone e del senatore Asciutti: si tratta di scegliere di far sì che non restino lettera morta.
Il ministro Mussi, ora che è stato riconfermato nel suo incarico di governo, ha l’occasione di dimostrare che si può fare qualcosa di più che non dei semplici, comodi ed ironici auguri di successo. Ha l’occasione di dimostrare che la sinistra nuovamente al governo sa cogliere il valore della cultura artistica più di quanto abbia dimostrato di saper fare nel 1999, dicendoci qualcosa di più concreto circa il futuro prossimo dell’Afam, riconoscendoci la dignità di interlocutori intellettuali piuttosto che il modesto ruolo di impiegati civili dello Stato, di cui siamo orgogliosi ma non servili servitori, amministrati e diretti da una Direzione generale del suo Ministero, piuttosto che ispirati ai principi di una necessaria ed irrinunciabile rivendicazione dell’autonomia della cultura.

Abbiamo ottime e fondate ragioni per ritenere che i saperi dell’arte, come quelli della scienza, debbano godere di piena autonomia per essere davvero liberi e sciolti dal vincolo che li può soggiogare ad ogni potere. Abbiamo altrettante valide ragioni per sostenere la specificità che i saperi dell’arte rappresentano, ma conosciamo bene la differenza tra specificità e separatezza, concetto quest’ultimo che rifiutiamo.
La separatezza nella quale si è voluta confinare in Italia l’esperienza dell’arte è la negazione di quel confronto tra saperi, di quella ricerca dell’universale che rende unica l’esperienza umana. Non possiamo accettare l’arte al di fuori dell’”universitas”, non possiamo accettare che all’arte sia impedito di manifestare il proprio fondamento umanistico.

Se davvero si vuole assumere il principio dell’emergenza e degli stati generali in modo non mistificatorio bisogna portare a compimento il processo di riforma dell’Afam sapendo che vi è una sola strada maestra per farlo, quella che invoca l’urgenza di un provvedimento legislativo di parziale e significativa modifica della L.508/99, sì da prevedere una soluzione organica e definitiva del problema dello stato giuridico della docenza, che deve passare attraverso l’elaborazione di un percorso idoneativo opportuno e coerente con il sistema della formazione universitaria, nonché quelle clausole di salvaguardia che ogni legge ha l’obbligo di prevedere in simili casi.

Soltanto se sarà riconosciuto questo fondamentale diritto ed avviato un percorso virtuoso per il futuro, ci potranno essere adeguate garanzie di sviluppo del sistema che riguarderanno in primo luogo – come immediata conseguenza - gli studenti e il personale tecnico ed amministrativo, attualmente di fatto privo di qualsivoglia valore di rappresentanza.

Soltanto invertendo in forma radicale la tendenza che anche gli stati generali hanno assunto ad ignorare la centralità del problema dello stato giuridico della docenza, si potranno realizzare appieno gli obiettivi formativi e di ricerca cui sono deputate le Istituzioni dell’Afam.

Il governo ha la facoltà di investire il Parlamento di tale questione che certamente ha tutte le caratteristiche per entrare a pieno titolo nel programma enunciato dal presidente Prodi relativamente alla priorità degli interventi da compiere nel campo dell’università e della ricerca. Lo faccia dunque e gliene saremo grati. Gliene sarà grato il mondo dell’arte.

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Mercoledì 4 Aprile 2007
Manifestazione con il Ministro Mussi e Guglielmo Epifani

La CGIL e la FLC Cgil hanno promosso un convegno per discutere le prospettive del settore dell’AFAM. L’iniziativa si svolgerà in una prestigiosa sede della Capitale mercoledì 4 aprile.
Sarà presente ai lavori il Segretario generale della CGIL GUGLIELMO EPIFANI, che svolgerà l’intervento conclusivo.
Il Ministro dell’Università e della Ricerca FABIO MUSSI ha assicurato la sua presenza.
Il quella occasione la FLC Cgil presenterà le sue proposte e le sue rivendicazioni per un’organica riforma del settore.
Il programma definitivo è in via di definizione.

Si invitano le strutture ad organizzare la più ampia partecipazione e ad assicurare la presenza dei candidati alle elezioni per il rinnovo delle RSU che si svolgeranno il 15/18 Aprile.

 

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