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Nota di aggiornamento del Def 2018: il cambiamento non c’è al pari delle risorse per i contratti

Nonostante la previsione di un significativo indebitamento nel triennio, nessuna inversione di tendenza nelle politiche di investimento su scuola, università, ricerca e Afam. Nulla anche per il rinnovo del contratto dei lavoratori pubblici.

05/10/2018
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La nota di aggiornamento del documento di economia e finanza 2018 delinea un quadro di intervento che prevede un aumento degli investimenti pubblici rispetto allo scenario tendenziale con risorse aggiuntive pari a 0.2 punti di Pil nel 2019 a crescere oltre lo 0.3 nel 2020. Il documento indica che tale programma corrisponderà ad un investimento complessivo delll’1.9 per cento nel 2019 e del 2.3 nel 2021. Si tratta dunque di uno scenario di finanza pubblica inedito rispetto al trend degli ultimi dieci anni, nel quale l’obiettivo di riduzione del rapporto debito/Pil viene perseguito togliendo priorità alla riduzione del debito e promuovendo un aumento di spesa per investimenti orientati alla crescita del Pil nominale.

Difficile valutare oggi se la manovra tracciata nel Def 2018 sia effettivamente in grado di promuovere una crescita dell’economia e dell’occupazione tale da generare le ottimistiche previsioni di crescita indicate dal Governo pari al 1.5 percento nel 2019, 1.6 nel 2020 e 1.4 nel 2021.

Guardando nello specifico gli interventi nei settori della conoscenza la nota di aggiornamento del DEF licenziato dal Governo non prevede non solo nella prossima legge di bilancio del 2019 ma anche per il prossimo triennio nuove risorse.

Un arrampicarsi sugli specchi per dire che, se si potrà, si interverrà su questo o quel segmento ma senza alcuna spesa. La ormai famosa locuzione che imperversa nei documenti ministeriali, “nell’ambito delle risorse previste a legislazione vigente”, viene ripetuta ossessivamente ad ogni manifestazione di buoni propositi: per incrementare l’inclusione, per aumentare il tempo pieno e prolungato nelle scuole, il diritto allo studio, la crescita professionale del personale e così via.

Ciò che è certo per i settori della conoscenza è che il così detto “Governo del cambiamento” non sembra essere intenzionato a invertire il trend del sottofinanziamento di Scuola, Università, Ricerca e Afam.

Rinnovo dei CCNL: mancano le risorse

Nel testo del Def 2018 viene individuata la “lenta accelerazione dei salari” come fattore che tiene bassa la crescita e si sostiene che “solo un credibile e prolungato sostegno ai redditi può migliorare le aspettative e portare ad una più decisa ripresa degli investimenti privati. [..] Si afferma inoltre che negli ultimi anni l’anello debole del sistema economico italiano è stato la debolezza della domanda interna da riportare riportare a tassi di crescita confrontabili con quelli dei maggiori paesi europei”.

Tutto assolutamente condivisibile. Peccato che nonostante sia questo il quadro delineato non sembrerebbe esserci alcuno stanziamento per il rinnovo del contratto dei pubblici dipendenti. Si tratta di una assenza grave ed ingiustificabile ancor più in uno scenario di previsto investimento di 2.3 punti percentuali di Pil nel triennio. Per altro il danno in termini di perdita del valore d’acquisto dei salari dovuti all’assenza del rinnovo contrattuale viene stimato nel Def nell’ordine di una riduzione dello 0.4 per cento nel biennio 2020-2021. Da un lato si indica il “credibile e prolungato sostegno ai redditi” come strada per la ripresa degli investimenti privati, dall’altro non vengono previste risorse contrattuali per la crescita dei salari dei dipendenti pubblici rivendicando anzi il calo dell’incidenza sul Pil dei redditi da lavoro dipendente nella PA come fattore di risparmio. E ciò dopo aver annunciato che nel 2019 essi aumenteranno grazie al contratto appena siglato seppur con enorme ritardo. E a tale proposito, facciamo notare che nel 2015 proprio la Corte ha stabilito che i Contratti collettivi dei lavoratori pubblici vanno stipulati perché sono un diritto.

Ma per il Governo in carica pare di no.

Cosa si prevede per i settori Ricerca e Università

Si prevedono misure su temi significativi quali diritto allo studio, numero chiuso, crescita professionale dei ricercatori, reclutamento, progressioni di carriera, rientro dei ricercatori nelle strutture di ricerca italiane, criteri di distribuzione delle risorse. Si tratta ovviamente di titoli impossibili da valutare. Ci auguriamo che il Governo del “cambiamento” non voglia ripropinare al mondo dell’Università e della Ricerca l’ennesima riforma calata dall’alto senza confronto con le parti. La legge 240 del 2010, il metodo autarchico con cui è stata emanata e i cui infiniti danni ancora paghiamo negli atenei e nei centri di ricerca, dovrebbe essere un monito per chiunque abbia intenzione di mettere mano su questi settori strategici per il Paese.

Rispetto al tema fondamentale, cioè quello delle risorse, l’auspicio è di quelli del tutto condivisibili, viene infatti indicato che “Nel settore della ricerca il Governo mira all’incremento delle risorse destinate alle università e agli enti di ricerca, agendo sia sui rispettivi fondi di finanziamento, sia per la ridefinizione dei criteri di finanziamento”.

Troviamo tuttavia più che allarmante che in tutto il Def né nella “promozione dei settori chiave dell’economia” tra gli investimenti in infrastrutture né altrove ci sia traccia della volontà di programmare investimenti diretti. Nel documento l’unico esplicito riferimento alle risorse è connesso alla promozione di “partenariato pubblico/privato” e all’utilizzo di fondi di progetto quali quelli provenienti da Horizon 2020. La percezione sembra essere quella di un film già noto, quello per cui nonostante le chiacchiere sull’importanza della ricerca come leva per rilanciare l’economia, si surroga il mancato finanziamento della ricerca di base con fondi che tutt’altro obiettivo hanno nel quadro internazionale in cui vengono erogati.

Cosa si prevede per il settore Afam

  • completamento del processo di riforma del sistema di reclutamento;
  • un possibile piano di riassetto complessivo del sistema e di riordino dell'offerta formativa, definendo i criteri per l'attivazione dei corsi di specializzazione e di formazione;
  • statalizzazione degli ex istituti musicali pareggiati e delle ex accademie storiche, ove possibile.

Cosa si prevede per il settore Scuola

  • la revisione del sistema di reclutamento, affrontando il problema dei trasferimenti, che limita un’adeguata continuità didattica. La valorizzazione del ruolo del personale amministrativo tecnico e ausiliario (ATA) anche attraverso la formazione in servizio del personale di segreteria. Per i collaboratori scolastici si studieranno misure per la loro stabilizzazione funzionale all’internalizzazione di alcuni servizi.
  • proseguire gli sforzi diretti a limitare l’abbandono scolastico, incentivando gli studenti a proseguire gli studi, fino all'ottenimento di un titolo di scuola secondaria di secondo grado
  • un intervento sull’alternanza scuola-lavoro, oltre al differimento dello svolgimento da parte degli studenti del monte ore di alternanza quale requisito di ammissione agli esami di Stato – al fine di rendere i percorsi il più possibile orientativi e di qualità. In tal senso il monte ore globale verrà ridefinito in base al percorso scolastico;
  • misure per assicurare il reclutamento dei docenti con titoli idonei all’insegnamento della lingua inglese, della musica e dell'educazione motoria nella scuola primaria ai fini dell’ampliamento dell’offerta formativa;
  • l’incentivazione e promozione, ove ne ricorrano effettivamente le condizioni, del tempo pieno e prolungato nella scuola del primo ciclo;
  • il potenziamento del segmento 0-6 anni in particolare nelle Regioni che ad oggi presentano un accesso ai servizi educativi per l’infanzia inferiore alla media nazionale introducendo una misura di perequazione che incrementi il Fondo nazionale relativo al sistema integrato. Viene ribadito il valore delle “sezioni primavera”.
  • la rivisitazione delle modalità di reclutamento dei docenti di tutti gli ordini e i gradi di scuola rendendo più snella e agevole la procedura e attivazione di percorsi specifici sul sostegno.

Infine l’”Autonomia differenziata” ovvero l’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione concernente l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario. Sulla questione è già stato avviato un percorso con tre Regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) nel 2017 e nei primi mesi del 2018. È cosa che ci riguarda da vicino perché anche l’istruzione dovrebbe essere devoluta alle regioni che lo richiedono. Ma su questo è bene che il Governo rifletta attentamente e si fermi perché il diritto all’istruzione, per il quale occorre ancora individuare i livelli essenziali di prestazione (lep) perché esso sia garantito in maniera uguale su tutto il territorio nazionale come prevede la Costituzione, non è “regionalizzabile”.

Ad una prima lettura i fondi, come al solito, per l’istruzione non ci sono. Ci sono solo molte parole, buoni propositi, elenchi di cose già messe in cantiere e che non costino (revisioni esami, bandi di concorso già programmati e che forse con fatica andranno a buon fine come per i DSGA), forse aumento del tempo pieno e prolungato (se ci sono le condizioni), formazione per il personale ATA (a risorse invariate) e così andando. Vedremo alla prova dei fatti. Noi saremo in campo per rivendicare un vero cambiamento già nella legge di stabilità.

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