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XVIII Congresso CGIL: l’intervento di Francesco Sinopoli

Il testo integrale e il podcast.

24/01/2019
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Ascolta il podcast

Ha ragione Susanna nella sua densa relazione, bella e di progetto, quando ci ricorda che la cifra dei governi nazionalisti e fascisti sono i muri. Muri alti e duri da scavalcare, come quel Mediterraneo che un ragazzino del Mali di 14 anni cercava di attraversare con una pagella cucita nella camicia, come una sorta di passaporto per l’Europa. Usava l’educazione come chiave di accesso alla cittadinanza, come carta di identità per essere accolto nel nostro mondo dall’altra parte del mare.

E invece è morto con la sua pagella cucita al petto.

Ecco, quei muri del razzismo e della xenofobia, ogni giorno alimentati dal nostro Ministro dell’interno che dovrebbe dimettersi, noi dobbiamo abbatterli e aiutare a scavalcarli anche grazie all’educazione e ai luoghi principali dell’accoglienza e dell’inclusione che sono le nostre scuole e tutti gli altri luoghi dove l’inclusione si pratica. Non a caso proprio quelli sono sotto attacco. Si colpiscono i simboli dell’integrazione per alimentare l’ossessione securitaria rafforzando la paura dell’altro: dal comune di Riace, dove non si pratica semplicemente accoglienza ma si costruiscono una società e una economia alternative a quelle che dominano il territorio calabrese, alle scuole, come a Monfalcone, Lodi.

Il richiamo nazionalista delle masse presenta le sue invarianti storiche: così, come in passato, siamo velocemente passati dalla retorica del nemico esterno all’attacco diretto ai luoghi dell’integrazione, e all’espulsione del diverso.

Tuttavia, abbiamo la consapevolezza che non basterà descrivere i fenomeni e chiamarli con il loro nome per esorcizzarli. Serve una grande risposta collettiva, etica e civica. E porci le giuste domande.

Innanzitutto come uscire dalla falsa contrapposizione fra europeismo mercatista e nazionalismo. Consapevoli che la barbarie del nazionalismo è un sottoprodotto del fondamentalismo del mercato. E la domanda che ci facevamo negli anni ’90, quando il dibattito sulla democratizzazione dell’Europa era dei movimenti, del sindacato e di parte della sinistra politica, è quella da porci ancora oggi. Oggi noi paghiamo, non solo in Italia, le conseguenze di politiche che non sono degli ultimi mesi e che sono state dettate da scelte sociali ben precise. È compito del sindacato, del nostro sindacato, dare delle risposte su vari piani, etico, civile e sociale alle vere priorità. La nostra sicurezza, soprattutto dei più deboli che oggi sono la maggioranza dei lavoratori salariati, non è minacciata dai migranti - come una narrazione semplicistica vuol far credere -, ma dalla restrizione del perimetro pubblico, e dall’indebolimento del valore e del peso del lavoro che va avanti progressivamente ed inesorabilmente da trent'anni.

Siamo europeisti convinti, ma di quale Europa? L’Europa dei diritti civili e sociali, della mobilità delle persone prima delle merci, dell’accoglienza e dell’integrazione. E su questo dobbiamo sfidare il governo: sulla sicurezza sì, ma quella sociale, sui salari, sulle pensioni, sulla scuola pubblica e la sanità, sull’accesso all’università, sulla gratuità dell’istruzione. E sull’ambiente, perché la prima sicurezza che dobbiamo assicurare è quella di non essere travolti dalle catastrofi derivanti dal riscaldamento climatico che noi chiamiamo dolcemente cambiamento climatico, e dal degrado progressivo del territorio.

Ha ragione dunque Papa Bergoglio, che ha dedicato alla crisi ambientale, la sua prima enciclica, la Laudato Sì sulla cura del creato. I cambiamenti climatici sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche e costituiscono una delle principali sfide dell’umanità. Desertificazione, da un lato, e innalzamento degli oceani, dall’altro, aumentano le popolazioni colpite da fame, denutrizione, malattie, mortalità infantile. E migrazioni dalle dimensioni altrettanto epocali. Ecco perché è importante sostenere politiche pubbliche che affrontino il clima come bene comune di tutti, per tutti. Noi dobbiamo fare una precisa scelta, non ci sono mediazioni quando è in gioco il futuro dell’umanità.

A partire dalla necessità di rilanciare la battaglia per l’acqua come bene comune.

Ricordiamoci che sulla battaglia per l’acqua pubblica si è costruito un grande movimento. Uno di quelli che avrebbe potuto dare linfa alla sinistra politica. Come tutti i movimenti rimasti inascoltati di questi anni, a partire da Genova 2001 passando per l’“Onda”, a quelli che abbiamo contribuito a costruire in tanti.

E allora non possiamo oggi ragionare riproducendo lo “sviluppismo” della seconda metà del Novecento. Qui non si tratta di salvare il capitalismo da se stesso, come sosteneva la maggioranza della sinistra comunista e socialista negli anni ’50, ma salvare l’umanità dal capitalismo e dal mercato devastanti e senza regole. Non possiamo che partire dalla ricerca dei limiti necessari al nostro modello di sviluppo correggendone le traiettorie di fondo: cura del territorio e sostenibilità ambientale – a partire dalle grandi direttrici: aria, acqua, terra e città verdi – con riferimento all’economia circolare quali criteri principali delle scelte. La priorità dovrebbe essere coerentemente quella di ricucire un territorio spesso desertificato dalle grandi infrastrutture. I grandi assi autostradali e ferroviari intorno a cui è cresciuto in molte zone del paese, nell’Italia di Mezzo e nel sud lo spopolamento, non lo sviluppo.

Mettendo al centro il sapere. Ma quale?

Solo un sapere che contribuisca a fare i conti con i limiti dello sviluppo, solo un sapere libero e non piegato agli interessi contingenti dell’economia e della produzione è in grado di essere anche ingrediente fondamentale di una cittadinanza democratica e consapevole.

Solo una scienza che guarda ai bisogni fondamentali dell’umanità, una scienza libera dalla necessità di rispondere ad interessi di breve periodo può consentirci forse il salto necessario anche tecnologico di cui abbiamo oggi bisogno per dare una possibilità di vita alle generazioni del futuro.

Per questo dobbiamo rifiutare ogni determinismo e rivendicare, come facciamo nel documento “Il lavoro è”, il ruolo fondamentale del sindacato nell’orientamento di queste trasformazioni, attraverso il rilancio corretto dell’idea di codeterminazione e del ruolo centrale delle istituzioni pubbliche della conoscenza nel governo di questi processi, sapendo che, lasciati al mercato, produrranno solo nuove disuguaglianze e approfondiranno vecchi e nuovi divari, a partire da quello più grande tra Nord e Sud.

Per affrontare la questione meridionale servono misure efficaci e forti, prima fra tutte la garanzia del diritto all’istruzione. Investimenti nelle scuole del Mezzogiorno a partire dal tempo scuola, ricetta principale per abbattere dispersione e abbandoni. E invece oggi discutiamo di autonomia differenziata come se questa fosse davvero una priorità del paese.

Una strategia a “geometria variabile”. La posizione del Veneto, quella che il governo sembra accogliere, propone di calcolare i fabbisogni standard sulla base non solo dei bisogni dei territori ma del gettito fiscale, cioè della ricchezza dei cittadini. In pratica i diritti: quanta istruzione, quanta protezione civile, quanta tutela della salute saranno beni di cui le regioni potranno disporre a seconda del reddito dei loro residenti. E poi se insegni in Veneto verrai pagato di più, non perché sei più bravo, perché lavori di più ma perché risiedi in Vento. Si chiamano gabbie salariali.

Lo diciamo con chiarezza, l’istruzione è un diritto costituzionale indisponibile, un diritto di cittadinanza che purtroppo già si esercita a geometria variabile con enormi differenze tra territori e territori: il punto è cancellare la variabilità di questa geometria, non aumentarla.

Ci sembra davvero che il nostro sistema di istruzione e ricerca abbia altre priorità, a partire dalla costruzione di uguali diritti per le studentesse e gli studenti, le bambine e i bambini, in tutto il territorio nazionale.

Non servono piccole correzioni ai margini, ma davvero una totale discontinuità. Ciò significa dare priorità assoluta nelle scelte dei governi al sistema di istruzione e ricerca come l’Italia aveva iniziato nei primi anni ’60 direi dal 1962. È l’anno della scuola media unificata, poi seguiranno le altre riforme, quelle spinte dal basso, l’università di massa, l’onda lunga delle lotte sociali di quel secondo biennio rosso ’68-69, come lo chiamò Trentin, che ha così profondamente segnato la nostra storia.

Gli anni in cui si cambiava la scuola per cambiare la società. E si è cambiata con il contributo determinante della pedagogia democratica, nella convinzione che l’educazione, in un paese democratico, ha come fine principale quello di costruire persone autonome, responsabili, dotate di senso critico, aperte alla relazione e alla collaborazione coi propri simili. Questa è la missione che carta costituzionale affida alle istituzioni della conoscenza.

Solo un sapere interdisciplinare può rispondere a questa sfida ma allo stesso tempo solo questo sapere può aiutare le persone ad affrontare quella sfida democratica anch’essa prioritaria.

Nel mondo dove tutte le notizie sono accessibili, nel mondo delle multinazionali che ti profilano ogni giorno per determinare i tuoi consumi, nel mondo dei fascismi dilaganti che sulla falsità e sulla mistificazione delle notizie costruiscono consensi è indispensabile un sapere diffuso.

Perché questo obiettivo si realizzi abbiamo sempre pensato e continuiamo a pensare che la scuola vada cambiata partendo dal modo in cui si insegna. Ripensare la didattica a scuola anche confrontandosi con il lavoro è questione storicamente nostra, avremmo detto di sinistra.

Nella retorica della 107, l’ultima in ordine cronologico delle false riforme, centrale è il rapporto tra scuola e lavoro. Ma tra quale scuola e quale lavoro?

Non accettare il lavoro che c’è. Bisogna pensare semmai al lavoro come vogliamo che sia. Perché l’occupabilità diventi occupazione e non resti permanente disponibilità allo sfruttamento e alla precarietà è necessario modificare la nostra specializzazione produttiva e puntare non su profili professionali “stretti” ma su saperi e competenze interdisciplinari. Al contrario la retorica dell’occupabilità totalmente fuorviante asseconda gli interessi di brevissimo periodo del sistema produttivo. E l’alternanza della 107 è piegata su questa idea povera del lavoro, su questa ideologia che noi rifiutiamo.

Noi, il sindacato, realmente autonomo solo se riesce ad essere pienamente soggetto politico. Questo è l’insegnamento fondamentale di Bruno Trentin. Solo se è capace di fare politica in proprio. Solo così, e non reinventando nuovi collateralismi, potremo contribuire alla ricostruzione della sinistra che è sociale o non è.

Personalmente non soffro perché non ho un partito a cui iscrivermi. Credo anzi che una delle ragioni della nostra crisi, ciò che ha contribuito a mettere in crisi noi e la politica di sinistra, è stato anche il collateralismo con i partiti della sinistra politica di alcune stagioni.

Sappiamo quanto i grandi cambiamenti della nostra epoca ci impongano di cambiare, non di adeguarci, ma di attrezzarci per rappresentare il mondo del lavoro di oggi e quello di domani. Come movimento sindacale abbiamo tardato a comprendere e a fare le scelte conseguenti rispetto a un mondo del lavoro che si scomponeva e che non era più rappresentabile secondo le modalità consolidate, a volte cercando di compensare la perdita di rappresentanza reale con i rituali della concertazione e dei patti neo corporativi.  A volte contando su una politica amica. E trovandoci dunque spiazzati di fronte a governi che non hanno nessuna intenzione di riconoscerci un ruolo di soggetto costituzionale della mediazione sociale. La stagione dei patti neocorporativi senza investimenti pubblici e privati, senza una politica economica espansiva si è risolta in una autolegittimazione del sindacato e del potere politico ma non è dall’alto che il sindacato poteva e può risolvere la crisi di rappresentanza che l’attraversa da molti anni.

Di quale sindacato c’è bisogno oggi, di quale CGIL?

Non ci serve l'ordinaria manutenzione del nostro lavoro sindacale: di fronte a una crisi così importante di rappresentanza che nasce da cambiamenti profondi nel mondo del lavoro - e, aggiungo io, di fronte all'attacco che il lavoro ha subito - c'è bisogno di recuperare il sapere delle origini, il "progetto degli architetti", come diceva Pino Ferraris, in una parola un sindacato che sia soggetto di trasformazione sociale, portatore di solidarietà. Il momento genetico di Pino era la camera del lavoro di Milano di Gnocchi Viani (il fondatore della prima Camera del Lavoro), quella che vedeva le organizzazioni dei lavoratori insieme ai disoccupati, alle donne che cominciavano un duro, lungo e non compiuto percorso di emancipazione da una condizione di minorità con una forte attenzione alle tematiche sociali, la casa, la scuola, i trasporti. Il lavoro era parte essenziale di un intero orizzonte di vita, tutelare il lavoro voleva dire occuparsi anche delle condizioni del contesto territoriale in cui si svolgeva il tempo della riproduzione, dove le persone trascorrevano la loro vita quotidiana. Ripensare il sindacato oggi significa lavorare per includere quello che ne è fuori, allargare il perimetro della nostra rappresentanza, fare di questo obiettivo la cifra principale dell’azione sindacale dei prossimi anni, cogliere la stretta connessione tra i diritti sociali e i diritti civili, accogliere il rapporto che oggi c’è tra disuguaglianza e crescente sfruttamento delle risorse naturali che mette in pericolo la vita stessa del genere umano sul pianeta.

Bruno Trentin, nella Conferenza programmatica di Chianciano nel 1991, in un passaggio straordinario della sua relazione dice che dovremmo sforzarci per realizzare i diritti e il progresso, realizzando libertà e autonomia nel lavoro, a guardando e cercando di capire il tanto che fuori di noi si è mosso, a volte anche contro di noi, di intercettare i movimenti ecologisti, delle donne, le associazioni dei ricercatori e dei migranti, degli studenti, di costruire con loro una linea sindacale. Un sindacato aperto, dunque, e non autoreferenziale.

Lo diceva nel 1991 e io credo sia oggi ancora più vero. Abbiamo iniziato a farlo dobbiamo impegnarci ancora di più.

Il sindacato è decisivo per la rinascita della società come momento fondamentale dell’agire politico e può trarre forza da quanti oggi si muovono per affermare valori comuni che vanno oltre l’individualismo utilitarista: il movimento delle donne, quello degli studenti, le tante associazioni che si battono per la tutela del paesaggio e dei beni culturali, le associazioni dei migranti, per l’affermazione dei beni comuni a partire dall’acqua. Temo che in questa nostra discussione, dietro il rispetto delle regole invocato come un esorcismo, ci sia un’idea diversa.

La CGIL è adeguata al tempo presente se parte di un movimento più vasto, se l’affermazione della dignità del lavoro va insieme all’impegno per la libertà delle persone nei luoghi della loro vita, nelle famiglie contro i rigurgiti del patriarcato come nei territori affermando il diritto alla città e il diritto alla diversità.

Soprattutto se non riportiamo il conflitto nelle piazze. Se non saremo noi a farlo nelle forme e nei modi democratici dell’azione sindacale e in quelle nuove che sapremo trovare, temo che la deriva nazionalista a destra continuerà nelle urne e non solo.

È possibile rilanciare il sindacato dei diritti, riprendere la lotta per la dignità del lavoro, se non ci si rinchiude in se stessi, e se ci si collega ai bisogni di libertà e di autonomia che sono nate nel lavoro e nella società fuori e talvolta, come diceva Bruno, contro il sindacato.

Anche perché ha da sempre vissuto la sua esperienza sindacale su questi temi e su questi obiettivi, credo che la candidatura di Maurizio Landini abbia suscitato giustamente interesse e anche un po' di entusiasmo fra i tanti che guardano alla CGIL con fiducia e con speranza. Su questa proposta la CGIL può e deve trovare la sintesi politica, sarebbe incomprensibile il contrario.