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28 maggio 1974-28 maggio 2014. Quarant’anni dalla strage di Brescia

L’intervento della delegazione bresciana al III Congresso nazionale FLC CGIL.

28/05/2014
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40 anni fa una bomba fascista uccideva le compagne e i compagni della CGIL e del sindacato-scuola e fissava nella memoria delle cittadine e cittadini di allora i loro nomi: Giulietta Banzi, Clementina Calzari e Alberto Trebeschi, Livia Bottardi, Luigi Pinto, Euplo Natali, Vittorio Zambarda, Bartolomeo Talenti.

Tanta parte della storia della città è stata segnata da quel momento congelato plasticamente dalla sagoma sconnessa della colonna di marmo su cui poggiava la bomba, nascosta in un cestino, qualcuno la accarezza e nessuno vuol rimodellare, costituendo quella, anche nella sua forma, il vero monumento di quel fatto.

Dai nomi, dall’anagrafe, come nella livella di Totò, recuperavi l’eguaglianza di destino: donne, uomini, giovani,vecchi,lavoratori, pensionati, insegnanti, cittadini di famiglie conosciute, immigrati per lavoro, precari,ma solo la conoscenza della loro vita poteva e può riconsegnarti l’unicità, il segno esclusivo, la traccia del loro transito sula terra.

A questo compito oggi sta dedicando il proprio impegno di testimonianza la FLC di Brescia con una collana di “Quaderni della(dalla)piazza” cercando di ritessere per tutti loro con il contributo fresco, schietto, impegnato, delle studentesse e degli studenti di oggi il disegno delle loro aspirazioni e desideri.

Nel fare questa azione di cultura il sindacato attraversa e aiuta a ridefinire l’identità della civitas, assumendo così una fierezza consapevole nuova che affonda radici nel’insediamento gallico, nella colonizzazione augustea della Brixia fidelis, nel periodo della dominazione longobarda con il femminile convento di Santa Giulia  ora patrimonio dell’UNESCO, che contiene in se la stessa, seppur originale matrice municipale di cui è fatta la storia dell’intero paese; poi anche il senso di essere identificata come “leonessa” a seguito di una sconfitta subita dagli austriaci occupanti da parte di una borghesia che riuscì, all’inizio del secolo, con Zanardelli a darle un profilo di forte civismo che si “legge” nei monumenti all’eretico Arnaldo, ai grandi artisti Moretto e Romanino, al matematico Tartaglia.

Sede nella provincia della repubblica di Salò e dunque per anni nel dopoguerra, ma ancor oggi riferimento di una presenza fascista, ma al contempo fieramente operaia negli insediamenti dell’OM, della ATB poi BISIDER di Lucchini, dell’INNSE poi ILVA, della BREDA, della BERETTA e della FRANCHI armi, della PIETRA, della CAFFARO e dell’IDEAL –standard, luoghi di un sindacalismo molto attivo.

In quel lontano 1974 con il papa bresciano Montini impegnato a chiudere il concilio anche in città prevale il NO al divorzio.

Due anni di reiterati attentati fascisti ai centri di vita della città che allora erano anche le sedi dei partiti videro quale opposizione determinata la presenza di studenti a difendere anche fisicamente le scuole, il sindacato, il comitato antifascista, lo stesso che promosse quella manifestazione del 28 Maggio.

In quei quaderni si leggono brani di vita intensa :saldatura di affetti con battagli politiche.

Temi che oggi faticano a trovare sintesi allora erano la nostra ricchezza: ciò che unificava quelle compagne e compagni era la loro comune appartenenza alla CGIL, ma poi ognuno di loro faceva riferimento a forze politiche, a gruppi molto eterogenei della sinistra: il PCI, il PSIUP, Avanguardia Operaia, Potere Operaio, Servire il popolo, Lotta Continua.

Facile comprendere che il collante stava nel merito, quello, ricchissimo, delle utopie che ancora oggi ci fanno riconoscere e appartenere.

Per le compagne e compagni della scuola allora il diritto allo studio si declinava nella gratuità dei libri di testo per i figli della povera gente, o dei lavoratori seconda l’accezione di sinistra, questo elemento li rendeva riconoscibili, accettati come un sindacato di categoria in formazione entro una Camera del Lavoro che guardava con sospetto questi “intellettuali” non contrattualizzati.

Insieme coniugavano l’impegno della ricerca culturale, l’aspirazione a veder saldata la cultura scientifica con quella umanistica perché quello era il contendere.

100 iscritti c’erano allora, corrispondevano circa la numero di iscritti al Movimento di Cooperazione Educativa che utilizzava la stessa sede e spazio nel quale la discussione del mestiere di insegnante era guidata da Mario Lodi che a quel gruppo bresciano faceva riferimento.

La sua recente scomparsa poteva avere diverso spazio e attenzione se non avessimo la fretta di archiviare nei file la storia del ‘900.

Il tema che oggi angustia della saldatura fra professioni della conoscenza,la loro natura e la loro gestione attraverso il contratto allora veniva “interpretato” aggredito attraverso l’uso di un paradigma comune che permetteva a tutti di dire che la CGIL-scuola vantava la diversità di occuparsi contestualmente di contratto e di istruzione.

Il paradigma era che l’attenzione e la definizione degli obiettivi da raggiungere erano centrati verso l’altro da se  e la risposta stava nella ricerca del rinnovamento metodologico, nei disegni di riforma della scuola, ma più latamente della cultura, dello stesso  vivere  ,carichi di idee prima che di ideologia.

Il timore della valutazione di allora non si chiamava INVALSI, era rappresentato dal rischio di aderire alla definizione delle ricerche sociologiche che identificavano i docenti come “vestali della classe media” soggetti primi della reazione invece che animatori di contraddizione.

Da qui la spinta affinchè si modificasse la valutazione verso gli alunni utilizzata come strumento di selezione sociale. Non pare che oggi, nel solco presunto della liquidità, questo aspetto, fortemente ideologico sia venuto meno, spaventa semmai l’assenza dei Manzi e dei Don Milani quotidiani.

La sintesi realizzata allora, in quello straordinario esperimento di partecipazione civile degli organi collegiali, permetteva di far convivere nella dialettica costruttiva quelli che adesso chiamiamo stakeolders e operatori del sistema; il paradosso è rappresentato dal fatto che in quegli organismi si invocava un affrancamento dalla burocrazia ministeriale e ora, con l’autonomia, se ne invoca troppo spesso il ruolo guida.

C’è però un secondo aspetto che in questi 40 anni va osservato, la storia sui significati che lo slogan “la memoria vive” può assumere, ha assunto.

Brescia fieramente operaia è stata promotrice dell’esperimento unitario della FLM, degli auto-convocati, della delegazione che 10 anni fa spinse il parlamento ad occuparsi della legge di rappresentanza.

In quella piazza hanno trovato dimensione le parole di Alda Merini, della Pirovano, di Dario Fo, di Moni Ovadia, ma hanno trovato anche sostegno forte le indagini di Tina Anselmi sulle trame della P2, così come gli echi dei canti popolari della Marini di Ivan della Mea e di tanti artisti  che dall’emozione dei cittadini ricavavano nuova ispirazione.

Da 10 anni i giovani hanno voluto però riprendersi la piazza, riportare quei significati dentro alla lotta per la giustizia, sentivano pesante il paludato delle forme istituzionali del ricordo, hanno proposto nuove sollecitazioni alla riflessioni sui fascismi guerrafondai di oggi e sulla complicità in carico anche ai partiti; così come il recupero di quella aspirazione inclusiva della piazza dove il diritto diffuso di cittadinanza trovasse abitazione, l’esperienza degli uomini sulla gru da qui parte.

Rendere conciliabili queste anime, questi significati della piazza è diventato impegno politico della FLC bresciana insieme con la Camera del lavoro, a noi primi lo rammentano la fermezza umana di ADA, moglie di Luigi Pinto che , fino alla morte si rifiutò di salire sul palco delle “autorità” responsabili della mancata giustizia saldata alla verità politica da subito acclarata, e del fratello di Luigi che ha saputo trasmettere prima di morire senza vere avuto giustizi, al fratello che allora era un bambino l’immagine grande del fratello emigrato.

Per questo va sottolineato come l’attuale svolgersi della democrazia secondo la forma che possiamo definire aggregativa (l’alzata di mano, il clic del mi piace) non intercetta in alcun modo l’aspirazione delle ragazze e dei ragazzi che esprimono un lancinante desiderio di democrazia deliberativa, sintesi articolata di: conoscenza, competenza, responsabilità argomentata, azione cooperativa.

Ci sembra che qui risieda la crisi del valore di rappresentanza.

Fa piacere registrare che il lavoro fatto abbia permesso di realizzare quella consegna di testimonianza fra generazioni che è il “farsi” di una comunità,  e che in questi giorni questo impegno civile si stia arricchendo e abbellendo di un testo, in via di pubblicazione, di una compagna insegnante, allora bambina e rivolta ai piccoli per saldare la storia con le storie, l’emozione alle verità tristi.

La condivisione del dolore dei familiari è la ragione che rende possibile questo nobile intreccio ed è facile sentire  come il pudore dei cento e più feriti ne abbia costituito la base poiché in una città piccola come la nostra quella bomba ha segnato indelebilmente molte famiglie.

Quest’anno il 25 aprile e il 28 maggio, dopo esserci ripresa la città sottraendola alla guida xenofoba e all’ignoranza della destra leghista alleata a FI, mancherà la voce dell’ultimo partigiano della 122 brigata Garibaldi che per 40 anni, da quel giorno della strage, intonava come inno di lotta, ma anche come gioioso canto di gioventù spezzata la sua “Bella ciao”; si chiamava Lino Pedroni, comandante Modroz, con sensibile attenzione civile riposa nello stesso luogo dei caduti di Piazza Loggia.